Un’introduzione storica:
La crisi economica del Venezuela ha avuto inizio nella prima metà del decennio scorso. Il motivo è stato il repentino crollo dei prezzi del petrolio: il Venezuela è uno dei più grandi produttori di “crude oil” del mondo. Il commercio di questo prodotto rappresenta il 96% delle esportazioni complessive del Paese [1]. La strategia di Caracas è sempre stata quella di proporre prezzi al di sotto di quelli della concorrenza straniera, tanto da arrivare a vendere il petrolio a 10$ al barile quando la media dei prezzi era sui 100$ durante la presidenza di Chavez [2]. Intorno alla metà del decennio passato i prezzi del petrolio sono scesi vertiginosamente, tanto che le entrate nel 2015 si sono ridotte di circa 36 miliardi, rispetto all’anno precedente durante il quale ne aveva ricavati 79 [3]. Numeri alla mano è evidente come un avvenimento del genere possa avere un impatto devastante sull’economia di un Paese.
Il Venezuela non è mai stato un grande produttore di quei beni considerati essenziali, che venivano perlopiù importati. A seguito di una riduzione del PIL così forte, le persone si sono ritrovate ad avere un reddito di gran lunga inferiore, portando ad una diminuzione dei consumi e delle importazioni. Questo ha fatto sì che le persone non avessero la disponibilità materiale dei beni necessari alla sopravvivenza, portando anche ad una situazione di instabilità sociale. I prezzi dei beni primari sono saliti a dismisura [4] e di conseguenza anche i salari sono dovuti aumentare, innescando un circolo vizioso: aumentavano ciclicamente prima i prezzi, poi i salari. In particolare, il presidente Maduro periodicamente ha alzato il cosiddetto “salario minimo”, alimentando questo processo.
A seguito delle previsioni di riduzione di domanda del petrolio secondo l’Opec [5], il prezzo del petrolio è sceso di molto. Queste meccaniche hanno creato un secondo circolo vizioso: il Venezuela si è trovato a fronteggiare una riduzione del prezzo da una parte, mentre dall’altra aveva l’imposizione di produzione dell’Opec. In questa situazione il tasso “naturale” di disoccupazione, ossia il numero di disoccupati a cui tende un Paese nel medio periodo [6], era aumentato. Mantenendo il livello di produzione stabilito, le aziende si sono trovate ad avere un gap elevato tra quella che era la produzione, e di conseguenza la disoccupazione, “effettiva” e quella “naturale”, nonostante le numerose persone lasciate a casa. Quando la differenza tra tasso di disoccupazione effettiva e naturale tende ad un valore prossimo allo zero, l’inflazione assume lo stesso valore che aveva nell’anno precedente. Quando invece c’è una differenza tra i due tassi si genera “un’accelerazione” dell’inflazione [7]: ad esempio, se in un Paese si ha un’accelerazione dell’1% e l’inflazione l’anno precedente era 5%, l’anno successivo sarà al 6%. Quando questa riduzione incide un settore non essenziale non si ha un grande impatto sull’inflazione; ma il problema nasce quando ciò succede sul settore che produce il 96% delle tue esportazioni: gli effetti sono devastanti.
Caracas si è ritrovata con un debito insostenibile. Non volendo svalutare eccessivamente, scelta che avrebbe favorito le esportazioni, la decisione è stata quella di iniziare a stampare moneta in modo da poter ripagare i vari debiti. Questa produzione di moneta legata all’aumento dei salari, non vincolata a nessun tipo di provvedimento dalla banca centrale ha fatto sì che l’inflazione continuasse a crescere, tanto da arrivare al 10 milioni per cento alla fine del 2019 rispetto all’inizio della crisi [8].
Questa situazione è quindi andata a peggiorare nel tempo, nonostante ci sia stata una risalita del prezzo del petrolio, a causa del governo di Maduro e della banca centrale (quest’ultima da tempo sotto il controllo del governo centrale).
E con l’esplosione dell’epidemia di Covid-19?
A seguito della diffusione del coronavirus, i prezzi del petrolio sono scesi così tanto da costringere l’Opec ad una riduzione della produzione [9]. Al taglio della produzione è seguito un ulteriore aumento della disoccupazione e, data l’importanza delle esportazioni per il Paese, un peggioramento della crisi economica.
Secondo il ranking di Bloomberg, il Venezuela era preparato peggio di tutti gli altri Paesi d’America, davanti addirittura ad Haiti. Questo perché, oltre alle infrastrutture praticamente inesistenti, i prezzi degli oggetti necessari a “proteggersi” erano al di là delle possibilità della grande maggioranza della popolazione: una mascherina normale, verso marzo, costava sui 7-8 dollari e lo stipendio “reale” (ossia relazionato all’effettiva capacità d’acquisto) di un venezuelano si aggira sui 5,5 secondo le analisi [10]. I dati pubblicati dal governo non sono molto affidabili quindi si possono fare solo delle stime.
Secondo i dati forniti dal governo del Venezuela, nel paese, in data 29 maggio 2020, sono stati accertati 1.500 casi di coronavirus, con solo 14 decessi legati all’epidemia. Questi i numeri ufficiali, ma la realtà sembra raccontare una storia del tutto diversa: in tutto il Paese vi è solo un istituto in grado di svolgere le analisi necessarie sui tamponi. La capacità giornaliera? 600 tamponi. Per comprendere questo dato basti pensare che durante il mese di maggio in Italia vi è stata una media di oltre 100 tamponi per 100 mila abitanti [11]: la media, in Venezuela, è, assumendo che ogni giorno vengano processati tamponi sino a saturazione, di 2 tamponi per 100 mila abitanti.
Ciò che si teme, viste anche le evidenti difficoltà riscontrate nella popolazione nel rispettare le misure di prevenzione adottate dal governo, è che la diffusione dell’epidemia sia molto più radicata di quanto lo stesso governo faccia trasparire. Se questo fosse vero, le conseguenze per la nazione potrebbero essere gravissime, in quanto il sistema sanitario venezuelano non potrebbe sostenere un’affluenza di infetti paragonabile a quella dei paesi europei.
Infatti, come evidenzia un sondaggio condotto sui 16 ospedali di Caracas riportato da Il Post ([12]), la situazione è disastrosa: tutte le strutture sanitarie analizzate, eccetto una, sono a corto sia di sapone che di disinfettante, mentre la metà necessitano di guanti, mascherine e persino di acqua.
Un altro dato impressionante per rendere il quadro più preciso: in tutto il Venezuela, a fronte di quasi 29 milioni di abitanti, ci sono 163 posti in terapia intensiva. In Italia (60,36 milioni di abitanti) sono ben 8.490. E queste sono solo alcune delle grandi carenze del Paese.
Ma se la situazione è così grave nella capitale della nazione, come stanno le “periferie”?
Una realtà interessante, ancora presente in Venezuela, è quella delle popolazioni indigene: ne esistono ben 43 diverse. Tali popolazioni, come ha spiegato il leader di una di queste (warao) al Sir [13], Johan Ramos, conducono uno stile di vita semplice ed a contatto con la natura, costituito da attività primordiali come la caccia e la pesca ed una delle principali occupazioni, nonché forse la più importante, è l’artigianato. Tutte attività di difficile realizzazione in un regime di quarantena.
Inoltre, l’assistenza sanitaria presso questi popoli è praticamente inesistente: infatti Ramos ha deciso di reagire ed informa il Sir di aver contatto i leader delle altre popolazioni indigene per elaborare un comunicato, con lo scopo di alleviare la difficile situazione in cui la sua gente è piombata.
In conclusione, il covid sta mettendo a dura prova un Venezuela già in difficoltà, minacciando di generare danni “nel piccolo e nel grande”, dalla capitale ai villaggi nei confini nazionali.
La totale impreparazione del Paese non può essere nascosta e non può non essere affrontata, nonostante la difficile situazione politica e sociale che lo Stato sta vivendo da molto tempo: il rischio potrebbe essere un collasso non gestibile del sistema sanitario.
L’epidemia ha inoltre dimostrato, in maniera indiretta, come un’economia sterile e dipendente da un unico settore possa essere facilmente piegata non appena questo va in crisi.
Quello che sta succedendo non è nient’altro che la conseguenza di una scarsa capacità di diversificazione da parte di un Paese che ha deciso di puntare su una risorsa dalla quale, vedendo le intenzioni nei vari paesi nel mondo, si sta cercando l’indipendenza.
Federico Capello & Andrea Belvisi
[1], [2], [3], [5]: https://www.ft.com/content/c9c4b05c-0b81-11e5-994d-00144feabdc0
[6], [7]: “Macroeconomia, una prospettiva europea” di Oliver Blanchard, Alessia Amighini, Francesco Giavazzi
Comments