Le decisioni dell’OPEC contrastano le politiche energetiche e condizionano quelle finanziarie dell’occidente.
È arrivata mercoledì 5 ottobre l’ufficialità di un taglio di produzione di petrolio da parte dell’OPEC+ che ammonta circa il 2% dell’offerta globale, in concomitanza con l’estensione dell’alleanza con la Russia, la quale è stata confermata fino alla fine 2023.
Questa è stata la risposta repentina dell’OPEC agli stati membri del G7, che solo poche ore prima avevano implementato l’ottavo pacchetto di sanzioni verso la Russia, la cui entrata in vigore è prevista per il prossimo 5 dicembre. Tra queste ritroviamo un price cap su petrolio e derivati, fino ad ora colpiti solo parzialmente dalle sanzioni, il quale sarà esteso a qualsiasi forma di export. L’obiettivo sperato è quello di assicurare un approvvigionamento sufficiente e ad un prezzo ragionevole anche in paesi emergenti, i più colpiti dalle politiche monetarie restrittive perseguite dalle Banche Centrali e da un dollaro statunitense che si sta apprezzando sempre più rispetto alle altre valute.
Sulla questione del price cap si è espresso anche il vice primo ministro russo Alexander Novak, in occasione del meeting tenutosi a Vienna, facendo presente il fatto che la Russia avrebbe bloccato totalmente i flussi di petrolio verso ogni nazione aderente all’iniziativa del G7.
Source: J.P. Morgan Asset Management*
*Dati aggiornati al 30 settembre 2022
Il taglio effettivo di produzione dovrebbe corrispondere a circa la metà di quanto dichiarato ufficialmente, si stima quindi attorno a un milione di barili in meno al giorno; questo perché alcuni stati membri stavano già producendo a livelli inferiori rispetto alle aspettative degli ultimi mesi.
La scelta è stata definita necessaria da più figure di rilievo del cartello e, come spiegato mercoledì a Vienna dal ministro dell’energia dell’Arabia Saudita, Abdulaziz Bin Salman, un’offerta inferiore a quella attuale incoraggerebbe investimenti a lungo termine nel settore petrolifero, oltre che a difendere gli interessi dell’OPEC.
Una minore offerta sarebbe quindi fondamentale per assicurare il controllo sui prezzi del greggio e ricavi sufficienti a proteggere gli stati membri da una potenziale recessione. Dall’altra parte, quindi, per i paesi esterni al cartello, ne deriverebbero maggiori probabilità di un’inflazione sistemica oltre che un continuo impegno ad adottare politiche monetarie ulteriormente restrittive. Se a tutto ciò sommiamo i deficit strutturali della supply chain di commodities ed energia, il mix di variabili rischia di mettere sempre più in luce un’economia mondiale con numerosi problemi strutturali e restia alla globalizzazione.
E' stato un dietrofront inaspettato e poco gradito quello dell’OPEC, in particolare da parte dell’amministrazione Biden che è stata vista impegnata negli ultimi mesi a raggiungere un accordo per un aumento di produzione, o quantomeno per il mantenimento degli attuali livelli; si è vista tuttavia rispondere con un “no” nonostante i molteplici sforzi. Questa è un'ulteriore evidenza di come si stiano creando due schieramenti, entrambi concentrati solamente sui propri interessi, la cui cooperazione per un benessere generale sta affievolendosi sempre più.
Biden ha dichiarato infatti, di voler mantenere i prezzi di gas e petrolio più bassi possibile, in modo da poter arrivare alle elezioni di metà mandato a novembre senza che il quadro generale, già compromesso, potesse peggiorare ulteriormente. Tali intenzioni sono state confermate dalla decisione di attingere a ulteriori 10 mln di barili nel mese di novembre dalle riserve strategiche statunitensi: una soluzione temporanea che al momento non lascia presagire piani di medio-lungo temine in risposta al meeting dell’OPEC, ma una volontà di arrivare alle elezioni senza ulteriore malcontento. La reazione del mercato non si è fatta attendere, e dopo un fine estate in cui si era potuto osservare un rallentamento generale dei prezzi e volumi di scambio, è stata registrata la miglior performance settimanale dal mese di marzo.
Sin da marzo, gli Stati Uniti hanno fatto ampio uso delle SPR (riserve strategiche di petrolio), le quali sono state utilizzate anche in passato per aumentare il greggio disponibile e per calmierare i prezzi in momenti di particolare necessità. Tutto questo è avvenuto grazie a un piano che prevedeva l’utilizzo straordinario di un massimo di 180 milioni di barili con termine fissato a fine ottobre 2022.
Ad oggi le SPR hanno registrato i valori più bassi degli ultimi 37 anni ed è chiaro che non sia una soluzione sostenibile continuare ad estrarre petrolio da quest’ultime. È di fondamentale importanza, infatti, che i governi occidentali ripensino alle proprie politiche energetiche con urgenza, dato che i paesi del G7 non possono più contare nemmeno su un singolo membro dell’OPEC+.
Federico Gadda
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