La settimana scorsa nel nostro ultimo editoriale ci eravamo lasciati con una crisi di governo pronta ad esplodere, con la prospettiva del voto di fiducia al Senato che si riteneva potesse essere definitivo, in una direzione o nell’altra. Sette giorni dopo invece, la situazione di stallo non è stata ancora risolta e la stabilità di governo appare tuttora un miraggio. Nella giornata di martedì l’aula del Senato è divenuta agone politico dello scontro tra i due principali protagonisti di questa crisi istituzionale: Matteo Renzi e Giuseppe Conte. È stato un vero e proprio scontro all’ultimo sangue, non privo di attacchi diretti (e pesanti) da parte di entrambi. Conte ha accusato Italia Viva di aver <<scelto la strada dell’aggressione e degli attacchi mediatici>>, Renzi ha risposto sia entrando nel merito, citando emergenza sanitaria, economica ed educativa come emblemi del fallimento dell’attuale governo, sia attaccando le mosse del presidente del Consiglio, reo di aver << avuto paura di salire al Colle>> e di aver scelto <<un arrocco dannoso per le istituzioni>>
Dati tali fattori il risultato è riassumibile in un semplice numero: centocinquantasei. Centocinquantasei sono infatti stati i voti ottenuti dal governo: sufficienti per la maggioranza relativa (50%+1 dei partecipanti al voto), ma non sufficienti a garantire la maggioranza assoluta (50%+1 degli aventi diritto al voto). Un ulteriore elemento da tenere in considerazione è l’astensione dei senatori di Italia Viva (16) che se sommati ai 140 voti contrari avrebbero potuto portare alla caduta del governo. I costruttori, parola fin troppo abusata nelle ultime settimane, non sono stati trovati. Allo stesso tempo la compattezza del gruppo di Italia Viva al Senato pare precaria: se ci fosse stata la certezza di remare tutti nella stessa direzione si sarebbe evitata l’astensione e oggi l’Italia non avrebbe un governo. Quindi?
La risposta a questo interrogativo è più complessa di quanto potrebbe sembrare. Dal punto di vista costituzionale la maggioranza relativa è sufficiente per ottenere la fiducia, questo è quanto disposto dall’articolo 94 della Costituzione. Al tempo stesso però pare irrealistico sostenere la stabilità dell’attuale governo: tra i 156 voti favorevoli, infatti, figurano tre senatori a vita (Monti, Cattaneo e Segre), due membri di Forza Italia, subito espulsi dal partito del Cavaliere (Rossi e Causin), e i ritardatari Nencini e Ciampolillo. Sì, perché nel mezzo di una crisi istituzionale, innescata durante una pandemia che sta portando il sistema al collasso, c’è anche chi è arrivato in ritardo alla votazione, rendendo necessaria la revisione al video (una sorta di Var parlamentare) per decidere sull’ammissione al voto. "Sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere", direbbe qualcuno. In più per talune votazioni (come quella per lo scostamento di bilancio, strumento più che mai necessario in epoca di lockdown e necessari ristori), la maggioranza relativa non è sufficiente, serve quella assoluta che, come detto, il governo non ha. Al tempo stesso, per un’analisi completa, è giusto sottolineare che nella storia repubblicana sono stati addirittura 13 (su 66) i governi di minoranza, nel 1994 ad esempio Berlusconi governò (per soli 8 mesi a dire il vero) con 159 voti favorevoli in Senato.
Qualcuno si sarebbe aspettato le dimissioni di Conte, la sera stessa del voto. Al di là dei numeri, infatti, non raggiungere la fatidica quota della maggioranza assoluta (161 voti nel caso del Senato) è visto come un fatto politico. Al contrario, il presidente del Consiglio ha tirato avanti per la propria strada, chiedendo al Presidente Mattarella una decina di giorni per rinforzare l’attuale maggioranza. Ci permettiamo di osservare però che il tempo stringe: il Covid non sembra mollare la sua presa, c’è un Recovery plan da approvare in Parlamento e c’è un piano vaccinale quantomeno da implementare. Non c’è troppo tempo per giocare alle figurine dei senatori. Dall’altra parte il segretario di IV dopo il voto si è definito all’opposizione, pronto a diventare l’ago della bilancia: salvatore o rottamatore (parola non casuale) della maggioranza di governo, a seconda dei casi.
A questo punto il quadro è chiaro. Conte potrebbe trovare i numeri senza Italia Viva, oppure potrebbe riaprire al partito dell’ex premier e dare vita ad una sorta di governo Conte 2bis. Infine, potrebbe essere lo stesso Conte ad uscire di scena così da far nascere un nuovo governo all’interno del perimetro dell’attuale maggioranza, ma con un nuovo presidente. Sullo sfondo le due ipotesi, buone in ogni stagione, del governo di unità nazionale e del governo tecnico. Senza accordo l’unica soluzione sarebbero le elezioni. In settimana Orlando (PD) le ha definite <<più vicine>>, questa strada però pare ancora la più tortuosa e improbabile, in Parlamento e al governo nessuno le vuole. La sensazione è che alla fine una strada per salvare la rinomata cadrega (anche il termine poltrone ci pare abusato in questo periodo) si troverà.
Mercoledì (o al più tardi giovedì) sarà già un giorno cruciale, si voterà infatti la Relazione sulla giustizia del ministro Bonafede: i renziani hanno già annunciato il proprio voto contrario. Il rischio che il governo vada sotto al Senato è alto: la resa dei conti si avvicina, le carte sono in tavola e la partita è iniziata. Nel mentre l’Italia si gioca il suo futuro, tra vaccini e Next Generation EU. Opinioni a parte il grido unanime sembra uno e uno solo: fate presto!
Andrea Consales
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