Nell’ultima settimana la scarcerazione di Giovanni Brusca, mafioso pluriomicida già condannato al regime del carcere duro secondo quanto previsto dall’art. 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, ha acceso particolarmente il dibattito pubblico e politico.
Giovanni Brusca, autore di centinaia di omicidi, tra i quali quello di Giovanni Falcone e del piccolo Giuseppe Di Matteo, è stato condannato alla pena dell’ergastolo per gli omicidi commessi (oltre un centinaio, a dire dello stesso imputato) e per aver fatto parte della associazione a delinquere di stampo mafioso “Cosa nostra”.
Dopo 25 anni di carcere (in parte scontato secondo il regime del 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario), sconterà il resto della pena di 4 anni in libertà vigilata.
Per molti potrebbe sembrare assurdo che un pluriomicida condannato all’ergastolo possa terminare il percorso di detenzione dopo “soli” 25 anni. Questo tema ha infuocato il dibattito pubblico, diviso tra chi ritiene che la scarcerazione di Brusca sia giusta e sacrosanta, avendo pagato il suo debito con la giustizia, e chi invece pensa che sia completamente assurdo che, considerata la gravità dei fatti per i quali è stato condannato, possa essere libero il pluriomicida che uccise, tra i tanti, Giovanni Falcone e il piccolo Di Matteo.
Bisognerebbe però considerare la questione seriamente e in maniera obiettiva, lontano dalle opinioni “di pancia” che spesso fanno particolare breccia nella pubblica opinione.
Il percorso detentivo di Brusca è stato infatti caratterizzato dalla collaborazione con gli inquirenti, che ha permesso di assicurare alla giustizia anche altri esponenti della criminalità organizzata.
La disciplina delle collaborazioni di giustizia assicura infatti forti sconti di pena in caso in cui il mafioso condannato dovesse fornire delle informazioni alla magistratura, collaborando per l’arresto di altri esponenti della criminalità organizzata.
Le associazioni a delinquere di stampo mafioso sono particolarmente chiuse e molto raramente fanno trapelare all’esterno degli indizi inequivocabili della colpevolezza dei loro affiliati. Il lavoro delle Direzioni Distrettuali Antimafia, che negli ultimi anni sta sempre migliorando in qualità e quantità, è particolarmente complicato e sicuramente sarebbe impossibile portare a termine le indagini senza avere alcuna idea dei ruoli occupati all’interno dell’associazione a delinquere.
Gli unici a poter fornire queste indicazioni sono proprio i testimoni di giustizia. Solo loro possono fornire agli inquirenti dei dettagli preziosissimi che, se verificabili e riscontrabili, possono permettere di decapitare i vertici di intere cosche.
La maggior parte dei processi di mafia è nata proprio dalle dichiarazioni dei pentiti. Un esempio eclatante è il maxiprocesso, che non è attribuibile esclusivamente al genio investigativo del pool antimafia guidato da Giovanni Falcone, il quale poco avrebbe potuto fare senza le indicazioni e le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, che hanno portato alla condanna dei principali esponenti della mafia siciliana.
Sicuramente, non è però assolutamente facile trovare dei condannati che vogliano diventare testimoni di giustizia. Possono essere infatti brevemente riassunti tre motivi che rendono a volte sconveniente e, comunque, particolarmente pesante la collaborazione con la giustizia, nonostante gli sconti di pena:
· Innanzitutto, non è facile trovare dei collaboratori di giustizia tra i condannati a pene particolarmente esigue. Raramente per condanne sotto i 20 anni ci sono pentiti. Non sarebbe vantaggioso per il condannato poiché gli sconti di pena non verrebbero immediatamente applicati ma solo dopo i riscontri della veridicità delle informazioni (che richiedono anni). La collaborazione impedisce inoltre il successivo reinserimento nel contesto mafioso, qualora fosse nell’intenzione del condannato ritornare a delinquere dopo la fine della pena;
· Collaborare con la giustizia significa recidere radicalmente i legami con le associazioni mafiose e scontrarsi con i suoi componenti, che spesso equivale ad accusare amici e parenti. Soprattutto nella associazione criminale di stampo mafioso Ndrangheta, è difficile trovare dei pentiti poiché, essendo una formazione a struttura essenzialmente familiare, il collaboratore dovrebbe accusare i propri familiari di gravissimi reati, determinando quindi una condanna anche per i suoi cugini, genitori, coniugi e figli. Non è irrilevante, inoltre, il carico emotivo di questa tensione in fase di escussione dibattimentale, nella quale il testimone dovrà affrontare le parti accusate e i loro avvocati, sottoponendosi a lunghissimi e pesanti interrogatori;
· La vita del testimone di giustizia non sarà mai più la stessa di prima dopo la collaborazione. Pentirsi ha un prezzo molto alto: significa tagliare completamente le radici con il mondo precedente. Il collaboratore, seppur libero, dovrà vivere sotto copertura, sotto falso nome, per evitare gli attacchi che arriveranno dalle associazioni criminali tradite, le quali sicuramente non perdonano e, se possibile, si vendicano con la pena capitale. Il programma di “protezione” a cui sono sottoposti i collaboratori è quindi caratterizzato da un fortissimo disagio sia psichico che relazionale a causa del trasferimento in località protette, dell’assenza di un progetto di vita e della paura in cui tali soggetti vivono. Si tratta di un problema affrontato dal Servizio centrale di protezione con inefficienza, in ragione, soprattutto, dell’esiguità di personale specializzato capace di gestire queste delicate vicende.
Pur non entrando nel merito dei processi in relazione ai quali Brusca ha collaborato con gli inquirenti, è evidente che i testimoni di giustizia siano indispensabili e importantissimi perché sono gli unici a poter fornire alla magistratura dettagli indispensabili in fase istruttoria, difficilmente conoscibili anche con l’uso massiccio di intercettazioni e microspie.
Alla luce di queste riflessioni, appare indispensabile proteggere e concedere sconti di pena ai collaboratori di giustizia poiché sono fondamentali nella lotta dello Stato alla criminalità organizzata. Senza di loro, molti processi non sarebbero nemmeno iniziati e il lavoro degli inquirenti sarebbe stato spesso sterile e infruttuoso.
Invogliare i condannati per reati gravi a collaborare tramite gli sconti di pena è giusto e opportuno. La anticipazione della fine della pena non sarebbe infatti una eterogenesi dei fini ma una giusta opportunità che uno Stato di diritto, che ripudia il diritto tribale, dovrebbe riconoscere a chi collabora in indagini così delicate, sia per ragioni di opportunità nel contrasto alla criminalità organizzata che in ossequio al principio di lealtà.
La vita di chi ha scelto la strada della collaborazione con le Autorità non si rivela sicuramente facile. A un’attenta analisi sociologica del fenomeno, possiamo notare come il fulcro della problematica sia quello di approcciarsi a una realtà sconosciuta, che spesso contrasta con le esigenze di vita dell’individuo, il quale deve piegarsi ad un modello particolarmente rigido, sacrificando la propria natura e le proprie abitudini per uniformarsi agli schemi del sistema tutorio, oltre alla enorme difficoltà collegata al reinserimento sociale e al disagio psicologico ad essa attribuibile.
Riconoscere a questi soggetti almeno una riduzione di pena sarebbe quindi quanto di più giusto e opportuno uno Stato di diritto debba fare, ignorando le proteste e le problematiche sollevate dai più audaci sostenitori del diritto tribale.
Giuseppe Scaramuzzino
Comments