top of page

Il suicidio assistito tra legge e morale

Mario vuole morire. A causa di un grave incidente stradale occorso 11 anni fa, il 43enne è paralizzato dalle spalle in giù, e ha chiesto da più di un anno di accedere al suicidio assistito per porre fine alle proprie sofferenze. Infatti, Mario non è in grado di provvedere autonomamente al proprio suicidio, ma necessita di un intervento esterno.

Tuttavia, questa richiesta non ha ancora trovato seguito, a causa soprattutto della corrente incertezza normativa, dovuta all’inerzia di un legislatore in seria difficoltà quando si tratta di regolare per vie legali questioni morali.

Già, perché in fondo, si tratta di questo: stabilire una norma che sia generale – cioè valida per tutti – e astratta – slegata dal singolo caso concreto – su questioni che sono strettamente e irrimediabilmente soggettive, personali e molto spesso intime, sulle quali è pressoché impossibile trovare una sintesi adatta alla sensibilità e alle opinioni di ciascuno.


Come sottolineato in “Conflitti pratici: quando il diritto diventa immorale” di D. Canale, vi sono infatti numerose ragioni morali contrarie al riconoscimento del diritto al suicidio assistito.

Anzitutto, la convinzione che la vita umana sia sacra, e di conseguenza inviolabile. In quest’ottica, nessun essere umano dovrebbe comportare o contribuire alla morte di un altro individuo, senza eccezioni. Questa visione è attribuibile principalmente alla Chiesa cattolica, che proprio sulla vicenda di Mario si è espressa sollevando perplessità in merito al suicidio assistito, in questi termini: “Rimane tuttavia la domanda - se la risposta più adeguata (…) sia di incoraggiare a togliersi la vita. La legittimazione 'di principio' del suicidio assistito, o addirittura dell'omicidio consenziente, non pone proprio alcun interrogativo e contraddizione ad una comunità civile che considera reato grave l'omissione di soccorso, anche nei casi presumibilmente più disperati, ed è pronta a battersi contro la pena di morte, anche di fronte a reati ripugnanti?”. [1]Da questo punto di vista, contrariamente al passato la Chiesa si è invece espressa favorevolmente in merito alla somministrazione di cure palliative, cioè quelle cure volte a ridurre il dolore percepito dal malato, e alla eventuale sospensione di tutti i trattamenti considerati sproporzionati dal paziente.


In secondo luogo, a sfavore del riconoscimento del diritto al suicidio assistito opera l’argomento del “pendio scivoloso”, o slippery slope, per gli anglofili. Secondo questo argomento, riconoscere – sia pure a certe condizioni – il diritto ad essere aiutati a morire, sarebbe rischioso non tanto in sé considerato, quanto più in relazione alle sue potenziali conseguenze, un po’ come quando ci si trova su un pendio, reso scivoloso dalla pioggia, e ad ogni passo ci si ritrova sempre un po’ più in basso, e ogni tentativo di risalire risulta vano. Secondo i sostenitori di questa tesi, per quante rigide e ben definite condizioni si possano porre, comunque queste saranno destinate, nel corso del tempo, a sfibrarsi e a lasciare il passo a condizioni via via sempre più larghe e vaghe, sino ad arrivare a casi in cui sia sufficiente asserire un malessere psicologico, magari dovuto a una condizione di depressione temporanea, per poter accedere agli istituti di fine vita. Addirittura, sostiene qualcuno, si potrebbe arrivare alla situazione in cui ciascuno, indipendentemente dal proprio stato di salute e da ogni altra condizione, potrebbe avere il diritto a richiedere che lo Stato provveda alla sua morte.


Vi sono, tuttavia, anche ragioni morali favorevoli al riconoscimento del diritto al suicidio assistito.

In primo luogo, l’autonomia di scelta. Secondo questa argomentazione, l’essere umano dovrebbe essere libero di autodeterminarsi, non soltanto in merito alle questioni di vita, ma anche a quelle di fine vita. La dignità umana sarebbe quindi strettamente collegata alla capacità di decidere per sé, anche in riferimento all’opportunità di continuare a rimanere in vita o meno. Questa posizione presuppone naturalmente una capacità di intendere e di volere idonea a assumere tale decisione.

Secondariamente, l’immoralità della sofferenza inutile. Per i casi di malati terminali, in cui il decorso della malattia è irreversibile e causa dolore fisico e psichico, sarebbe contrario a moralità e dignità umana imporre la prosecuzione della vita e impedire di abbandonare per sempre le sofferenze patite.

Come si può facilmente notare, diverse concezioni morali comportano diversi esiti giuridici. Abbracciando le argomentazioni morali al suicidio assistito, è inevitabile concludere che nessun soggetto debba vedersi riconosciuto tale diritto. Ad esiti giuridici opposti si giunge accogliendo una opposta concezione morale.


Il nostro ordinamento giuridico non prevede una disciplina specifica per il suicidio assistito.

Tra le ragioni giuridiche a favore del suo riconoscimento, possiamo individuare l’art. 2 della Costituzione, che promuove in generale i diritti fondamentali della persona; l’art. 3 Cost., che afferma il diritto al pieno sviluppo della persona umana; l’art. 13, che pone la libertà personale come inviolabile; e l’art. 32, a tutela della salute – intesa anche come benessere psico-fisico – come fondamentale diritto dell’individuo, per cui nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.


Tra le ragioni giuridiche contrarie, troviamo invece lo stesso art. 2 Cost., che tra i diritti fondamentali include anche il diritto indisponibile, intangibile e inalienabile alla vita (ci si può legittimamente chiedere: un diritto è anche un dovere?); l’art. 579 del Codice penale, che vieta l’omicidio del consenziente; l’art. 580 c.p., che vieta di agevolare, in qualsiasi modo, l’esecuzione di un altrui suicidio; e l’art. 5 del Codice civile, che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume.

Da un lato, si nota che le disposizioni contrarie al riconoscimento del diritto al suicidio assistito sono più specifiche di quelle favorevoli, considerazione che spingerebbe verso l’applicazione della regola per cui la legge speciale deroga alla legge generale. Tuttavia, bisogna ricordare che in caso di antinomie, ovverosia “scontri” tra diverse fonti del diritto, vige il criterio gerarchico, per cui la norma di gerarchia superiore (la Costituzione) prevale sulla norma di gerarchia inferiore (la legge, cioè, in questo caso, i Codici).


Ad oggi, la Corte costituzionale, con sentenza 242/2019, si è espressa favorevolmente al riconoscimento del suicidio assistito, al ricorrere tassativo e contemporaneo di quattro condizioni: la persona che aiuta al suicidio non è punibile se il paziente è affetto da una patologia irreversibile, è costretto a patire gravi sofferenze fisiche o psichiche, ha piena capacità di prendere decisioni libere e consapevoli, e dipende per la sopravvivenza da trattamenti e cure esterne.

Nel caso di Mario, il Comitato Etico ha ritenuto tutte e quattro queste condizioni sussistenti, aprendo di fatto alla possibilità del primo suicidio assistito in Italia. Tuttavia, l’Azienda Sanitaria Unica Regionale (ASUR) Marche sta di fatto bloccando il processo, non adempiendo alle verifiche necessarie alla somministrazione del farmaco letale. Per questo motivo, Mario ha già indirizzato due diffide all’ASUR, che sono finora rimaste senza risposta.

A parere di chi scrive, il vero profilo problematico da tenere in considerazione è l’inerzia del legislatore. Le sentenze della Corte costituzionale, per quanto autorevoli, rappresentano una fonte del diritto “atipica”, non dotata del medesimo valore di una legge. Ciò è dovuto al fatto che solo la legge è frutto dell’attività del Parlamento, eletto da tutti i cittadini e dunque in grado di rappresentarne la volontà. Nonostante le evidenti difficoltà ad esprimersi su un tema così delicato e i rischi in termini di consenso elettorale, il legislatore dovrebbe una volta per tutte prendere posizione su questo argomento, e stabilire chiaramente quali siano le condizioni per esercitare un diritto e pretendere l’esercizio di un dovere in tema di suicidio assistito ed eutanasia.



Riccardo Canossa




Fonti

“Conflitti pratici: quando il diritto diventa immorale”, D. Canale.

[1] Pontificia Accademia per la Vita.

192 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page