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Il caso Greta Beccaglia e l’apologia del sessismo

Gustav Le Bon affermò, riguardo al comportamento gruppale, che l’individuo da solo è razionale, mentre in gruppo regredisce a stati primitivi, divenendo come ipnotizzato. I contesti sociali caratterizzati da elevato numero di soggetti, situazioni dove il fiume della folla trascina nei suoi gorghi l’individuo, sono terreno fertile per la messa in atto di comportamenti immorali perché la diffusione della responsabilità è massima. La colpa è dell’ambiente, del momento, dell’euforia che segue una partita di calcio, della confusione attorno a noi, di certo non è nostra. Cercando di mantenere un’immagine positiva di noi stessi, tendiamo a ritenerci vittime delle situazioni sociali, inermi esecutori di un inconscio collettivo cui non possiamo resistere. “Niente, niente, non pensavo a niente. Volevo solo andare alla macchina e non ho pensato”. Sono queste le parole di Andrea Serrani, il tifoso dell’Empoli che, terminata la partita del 27 novembre contro la Fiorentina , ha molestato la giornalista di Toscana TV Greta Beccaglia in diretta televisiva. Il conduttore Giorgio Micheletti, in collegamento, ha invitato la collega a “non prendersela”, nel tentativo in seguito esplicato di “non farla andare nel panico” dinanzi a una folla di tifosi chiaramente agitati e nervosi, che hanno continuato a perpetrare nei confronti della giornalista un atteggiamento irrispettoso, violento e soprattutto disumanizzante. Greta Beccaglia ha mantenuto un certo autocontrollo, nonostante l’assurdità della situazione, limitandosi ad esprimere profonda delusione e ad allontanarsi da coloro che insistevano nel loro atteggiamento abusante. Possiamo accontentarci di un’assoluzione da ogni colpa basata sulla folla circostante, sul contesto? Può una semplice attribuzione di natura situazionale spiegare cosa spinge un uomo ad affermare il suo possesso sul corpo femminile, toccandolo senza consenso alcuno, senza motivo? La violenza può essere davvero contestualizzata, le può essere data una cornice che la renda più leggera, volatile, rarefatta, facendole perdere tutto il peso che ha? A due giorni dalla giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, da quel piccolo spazio costruito ad hoc per permettere a cittadini e istituzioni di mostrarsi indignati, di indossare le proprie vesti femministe per poi riporle accuratamente nell’armadio, a prender la polvere per un altro annetto, l’ennesima riprova che il maschilismo non conosce confini burocratici, non conosce momenti opportuni. Si tratta di paradigmi incancreniti in una società le cui fondamenta sono date per immutabili, e guai a cambiarle. Perché agire sull’educazione all’affettività dei nostri giovani, perché sostenere le vittime di una violenza sistematica e socialmente ritenuta “accettabile” quando possiamo capitalizzare lo sdegno comune in un unico momento, scorrendo placidi migliaia di post intrisi di hashtag che sostituiscono la partecipazione concreta alla causa con una partecipazione mediatica istantanea, breve e indolore? Non diamo per scontato che Internet si sia dimostrato unanime nel suo supporto alla causa di Greta Beccaglia, anzi: non si è perso tempo nella ricerca spasmodica di ogni appiglio possibile per trasferire parte della colpa sulla giornalista, scrutando ogni suo post, ogni suo tweet, mettendo in luce quella che altro non è che la retorica di un sessismo autoritario, che denigra le sue vittime, le svaluta, creando una sorta di co-responsabilità. Greta Beccaglia non può, non deve essere innocente, perché ciò farebbe cadere tutta la responsabilità sul suo molestatore, sui tifosi, sugli uomini, e anche su di noi, che comodamente seduti da casa abbiamo osservato questo scempio svolgersi dinanzi a noi, e magari abbiamo pure pensato che è “inutile prendersela per così poco”, affermandoci ancora una volta come vittime e carnefici di questa violenza istituzionalizzata. Perché ora sì, la colpa è di Greta, che non avrebbe dovuto sporgere denuncia, non avrebbe dovuto mettere in moto la macchina legale che ha individuato come colpevoli i suoi aggressori. Si sarebbe dovuta placidamente accontentare di un po’ di attenzione mediatica e attestare un’altra volta, come tutti noi, che tutto questo è normale, come se la regolarità nella perpetrazione di un atteggiamento disumanizzante e violento lo rendesse allora giusto. Anche secondo studi di illustri psicologi (si vedano le ricerche di Johnson & Dowling), quando l’individualità non è in primo piano ma è il ruolo sociale ad esserlo, le persone tendono a mettere in atto comportamenti normativamente coerenti con il proprio ruolo. E quando il contesto è la folla, e il ruolo è quello di “maschio”, i soggetti si sentono legittimati a mettere in atto questi atteggiamenti di violenza: questo perché il sessismo è, a tutti gli effetti e senza soluzione di continuità, una norma comportamentale. Ma perché delegittimare la rabbia di Greta Beccaglia? Perché accanirsi sulla sua reazione di sdegno, cercando di alleggerire il peso delle accuse sulle spalle dei suoi molestatori? Come spieghiamo la reazione denigratoria dell’audience, la natura manipolatoria di testate giornalistiche che tentano di sminuire l’accaduto? Perché ora la nuova vittima è l’abuser? Nello studio dei processi di discriminazione categoriale sociale , ovvero della tendenza naturale dell’uomo a inserire esemplari in specifiche categorie a partire dall’analisi di alcune caratteristiche, è stato condotto un esperimento interessante: veniva richiesto ai partecipanti di stabilire se il soggetto di una foto appartenesse alla categoria di genere “maschio” o “femmina”. Le foto venivano presentate, e se l’espressione dei soggetti fotografati era neutra, i partecipanti erano rapidi a inferire un giudizio sul genere sessuale. Ma nel momento in cui vennero mostrati soggetti femminili che esprimevano rabbia, la situazione cambiò: il tempo impiegato per capire il genere della persona aumentò esponenzialmente, provando ancora una volta come il modello prototipico femminile nell’immaginario collettivo sia di una creatura docile, silenziosa, paziente, che mostra emozioni positive, e non di certo che mostra rabbia, collera, una donna che non sia disposta ad abbassare il capo davanti all’ennesimo atto di ingiustizia sociale. Una rappresentazione di genere stereotipata e differenziale costruisce un mondo dove tali differenze sono accettate, culturalmente condivise, normalità. Greta Beccaglia non può mostrarsi arrabbiata non perché non sia una vittima, ci mancherebbe altro: non può mostrarsi arrabbiata perché è donna.

 

Fonti: ANSA: https://www.ansa.it/amp/sito/notizie/sport/2021/11/28/giornalista-molestata-a-quante-donne- succede-nel-silenzio_0520d1a8-f079-48c3-8bab-78372abc4709.html

Tlon: https://www.instagram.com/p/CWtQ3RvMtlT/?utm_source=ig_web_copy_link Luigi Castelli: “Psicologia sociale cognitiva: un’introduzione”

 

Vanessa Morelli

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