Anche se un soffitto di cristallo è trasparente non significa che questo non esista.
Il linguaggio comune ha ormai da tempo abbracciato metafore in grado di sintetizzare argomenti ampi e articolati come la disparità di genere. Entro questo nucleo tematico il “soffitto di cristallo” è un neologismo tanto incisivo quanto sottile, coniato da Michelle K. Ryan, professoressa di psicologia presso l'Università di Exeter e ricercatrice di fama internazionale, che da oltre vent’anni investe i propri studi nel tentativo di infrangere questa barriera.
“The glass cliff” è rappresentativo degli ostacoli socio-culturali all’ambizione femminile di raggiungere posizioni professionali di vertice, nonché al conseguimento della parità dei diritti.
Il recente rapporto OCSE 2024, infatti, smentisce l’opinione di chi giudica tale tematica ormai superata, testimoniando come, nonostante il numero di laureate in Italia sia superiore a quello dei laureati (37% contro 24%), solo il 15% delle donne sceglie una materia scientifico-tecnologica a fronte di un 41% di uomini. A questi dati si aggiungono quelli a conferma del gender pay gap, che vede una retribuzione per giovani donne con un'istruzione terziaria pari in media al 58% di quella dei loro colleghi maschi (OCSE 2024). Ciononostante, studi inglesi dimostrano la stretta dipendenza tra due fattori: la maggiore presenza femminile nei board di imprese e organizzazioni e la migliore condotta di queste ultime. Una maggiore diversità di genere favorisce, infatti, la sostenibilità delle aziende in termini ambientali e sociali, più attenzione per il welfare dei dipendenti e un incremento degli investimenti in innovazione tecnologica.
La ricerca si adopera da anni per individuare strumenti atti a cancellare questo divario attraverso un'indagine trasversale che coinvolge una pluralità di discipline. Sono diverse, infatti, le politiche e i progetti sull’integrazione femminile già avviati nei vari atenei milanesi, prima fra tutti la scelta di trattare questi temi con esperti e studiosi. Il 18 settembre l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha tenuto un incontro proprio con Michelle Ryan, attualmente dirigente del Global Institute For Women Leadership presso l’Australian National University . Il suo intervento ha portato un’inquadratura statistica e scientifica sulla disparità di genere, riformulando la domanda all’origine della discussione. Invece di focalizzare l’attenzione sui “mezzi” per perseguire la parità di genere, infatti, Ryan ha scelto di spostare l’attenzione sugli “errori” compiuti, spesso inconsapevolmente, che bloccano la strada verso l’obiettivo. I suoi studi ne hanno identificati tre principali:
Un’esagerata attenzione per il numero di donne nei vari contesti di lavoro
Un fuorviante approccio motivazionale
Un eccessivo ottimismo
Quantità o qualità?
Il primo punto può risultare a tratti paradossale. Guardare alla quantità di donne nei diversi settori, ad esempio la percentuale femminile in Parlamento Europeo o nelle professioni medico sanitarie, è senza dubbio un buon elemento di partenza. Tuttavia, ridurre il discorso solo a ciò può indurre un ragionamento superficiale, statico di fronte agli altri aspetti contestuali a cui il famoso “glass cliff” è vincolato. Considerando l’esempio delle ultime elezioni inglesi risulta evidente come, pur in presenza di equità nel numero di candidate e candidati, l’80% delle donne abbia partecipato alle elezioni nel tentativo di ottenere dei seggi del tutto invincibili per loro. Ancor più recente è il caso di Kamala Harris, entrata all’ultimo minuto nella corsa per la Casa Bianca, dopo l’uscita obbligata di Biden. Se la presenza di una candidata donna per il partito democratico alle elezioni presidenziali sembra essere un ottimo argomento contro l’esistenza del soffitto di cristallo, la situazione di crisi nella quale si è trovata da luglio la colloca in una posizione di “svantaggio” che dovrà gestire progressivamente fino a novembre.
Sono più di 50 gli studi nei quali è possibile trovare un riscontro statistico rispetto a questi esempi. L’esperimento base interessava un’azienda in due scenari differenti: nel primo si registrava una crescita in termini economici della stessa, mentre nel secondo una decrescita e quindi una crisi. A questo punto erano chiamati in causa soggetti di diversi settori sociali ed economici, ed era loro chiesto chi avrebbero scelto nelle due circostanze per la posizione di leadership tra un uomo e una donna parimenti qualificati. Dai grafici è emerso in modo chiaro che se nel primo caso le preferenze erano leggermente maggiori per il candidato maschio, nel secondo la scelta è ricaduta quasi esclusivamente sulla donna.
Tutti i lavori d'archivio, sperimentali, di studio di casi e qualitativi, dimostrano che le donne hanno maggiori probabilità di essere nominate in posizioni di leadership in tempi di crisi. Ecco dunque che acquisisce rilevanza un secondo fattore, oltre a quello quantitativo, ovvero la qualità delle posizioni rivestite che si dimostrano essere rischiose, precarie e stressanti, con la probabilità di rafforzare gli stereotipi secondo cui le donne non sono adatte alla leadership.
Ambizioni in declino
Un celebre articolo della studiosa si intitola “Why should we stop trying to fix women?”. Con una semplice domanda viene messo in risalto l’effetto sviante che può avere un approccio motivazionale indirizzato esclusivamente a coltivare le ambizioni delle donne. Frasi di empowerment del tipo “you'll never know what you're capable of if you don't try” concentrano l’attenzione solo sulle scelte di carriera della componente femminile, ignorando però le barriere strutturali dei contesti organizzativi e sociali, in cui spesso vivono stereotipi e atti di discriminazione.
A tal riguardo è stato condotto uno studio negli Stati Uniti su parte di uomini e donne nel servizio di polizia circa la loro ambizione di promozione dal momento dell’entrata in servizio e nei successivi cinque anni. I risultati hanno messo in evidenza che il grado di ambizione degli uomini variava in maniera meno costante, aumentando nei primi tre anni e riducendosi nei due successivi, rispetto a quello delle donne che subiva invece una decrescita progressiva nell’arco dei 5 anni. Sono state mosse delle possibili spiegazioni nel merito di questo trend negativo legate all’orologio biologico delle donne e al loro desiderio di avere figli in una determinata fase della vita. Tuttavia, i dati non sembrano supportare questa tesi, dal momento che non si distingue una precisa fascia di età in cui le ambizioni delle donne calano drasticamente. Gran parte di questo declino sembra invece dipendere da circostanze dominate solo da uomini, spazi privi di modelli femminili titolari di una leadership a cui ispirarsi. Nel quadro appena descritto si assiste spesso a trattamenti differenziati, tesi a trascurare il contributo di alcuni interrompendone i discorsi e svilendone le proposte.
Le implicazioni derivano dal fatto che la fiducia e l'ambizione delle donne dipendono dal diverso trattamento che ricevono sul lavoro, specialmente da quello negativo. Le organizzazioni devono dunque adoperarsi per sviluppare una cultura del lavoro e un contesto che alimentino l'ambizione e la motivazione delle donne invece di ostacolarle.
Un ottimismo nocivo
Il terzo errore individuato da Ryan è “l’over optimism". Sebbene, infatti, con ottimismo si intenda coltivare aspettative positive per il futuro sulla base dei progressi fatti, alcune analisi rivelano i risvolti controproducenti di un ottimismo “eccessivo”.
Nello specifico, è stato chiesto ad alcuni interlocutori un parere sulla discriminazione di genere, ricavando dati per cui un 44% degli intervistati riteneva la disparità di genere un problema sconfitto (di cui la maggioranza erano maschi), un 14% si dichiarava neutrale e un 42% non era d'accordo sul fatto che il tema fosse superato. A seguire, gli stessi sono stati interrogati su quanto avrebbero retribuito due persone di diverso sesso con le stesse qualifiche per un determinato servizio ed è emerso come, paradossalmente, gli ottimisti avrebbero pagato di più l’uomo, dando dunque spazio di crescita al divario salariale. Un eccessivo ottimismo è perciò singolarmente associato, oltre che al mancato riconoscimento della discriminazione in atto, anche ad una maggiore penalizzazione e ad un minore sostegno per le iniziative sulla parità di genere.
È evidente la portata insolita delle conclusioni a cui hanno condotto gli studi scientifici di Michelle Ryan. Le sue ricerche sono state in grado non solo di esaminare la tematica con un profilo oggettivo e quantitativo, ma soprattutto di aprire al dibattito un fascio di questioni sottese al filone centrale, a cui spesso si dà poco conto. Il suo contributo è stato, non a caso, fondamentale per permettere a molte università di elaborare proposte di policy in grado di colpire la radice delle diverse forme di disparità. Grazie a Ryan il soffitto non è più invisibile, ma il cammino per infrangerlo del tutto è ancora da tracciare.
Siria Santangelo
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