Ricomincia l’incubo per il Myanmar: le Forze Armate hanno ripreso il controllo del Paese rovesciando il governo democraticamente eletto. Nonostante le promesse di elezioni libere tra un anno, le misure di repressione ricordano tempi tristi: la junta è tornata.
Troppe volte la democrazia è stata data per scontata, troppe volte è rimasta indifesa, troppe volte la sua caduta è rimasta ignota agli occhi dei più. Il suo cammino per la libertà è sempre stato impervio, ma mai come ora il Myanmar ha bisogno di ritrovare la retta via: i sacrifici fatti nei 50 anni di regime militare non possono andare sprecati. Nonostante i segnali premonitori fossero ben chiari, molti avevano ignorato la possibilità che nel Paese si ripresentasse una junta, finché il mattino dell’1 febbraio non li ha risvegliati. Molti parlamentari e leader democratici, tra cui il Presidente Wyn Myint e la Consigliere di Stato Suu Kyi, sono stati sorpresi nelle prime ore del giorno e arrestati. Poco più tardi il Vicepresidente Myint Swe ha dichiarato lo stato di emergenza per un anno e consegnato il potere al Comandante delle Forze Armate, il Generale Min Aung Hlaing, invocando l’articolo 417 della Costituzione. Da allora le proteste contro questa presa di potere si sono moltiplicate, coinvolgendo tanto studenti quanto dottori, insegnanti e funzionari pubblici: in tutta risposta l’Esercito ha represso violentemente le manifestazioni, ricorrendo ai proiettili di gomma, cannoni d’acqua, gas lacrimogeni e armi da fuoco. Al momento, l’unica vittima di cui si ha notizia certa vi è una diciannovenne birmana colpita alla testa da un proiettile d’arma da fuoco.
Questo scenario non è per nulla nuovo per il Myanmar: già nel 1988 e nel 2007 rispettivamente la Rivolta 888 e la Rivoluzione Zafferano avevano dovuto affrontare le canne dei fucili del Tatmadaw, l’esercito birmano. Allora come adesso, l’obiettivo era spingere la junta ad aprirsi alle riforme democratiche. Infatti per quasi 50 anni il Myanmar fu soggetto al controllo totale delle Forze Armate, che soltanto nel 2011 lasciarono spazio a un governo civile. Quest’ultimo processo fu approvato grazie al referendum costituzionale indetto nel 2008, aspramente criticato per via delle condizioni in cui si svolse. Molte municipalità non poterono votare, anche a causa del ciclone Nargys, oppure si videro consegnare schede già compilate col sì. A questo si aggiunsero le ormai familiari coercizioni dei militari, che minacciarono di prigione chi non si adeguasse ai loro ordini. Sebbene fosse ritenuto da molti fraudolenta, questa votazione di fatto inaugurò la seconda stagione democratica del Myanmar. Il sistema instaurato era però solo parzialmente democratico: il Tatmadaw controllava ancora un quarto del Parlamento e i ministeri dell’Interno, della Difesa e dei Confini. Nel 2011 si tennero le prime elezioni multipartitiche dalla presa di potere dalla junta, vinte dall’USDP, il partito supportato dai militari, che si vide la strada spianata quando la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) non partecipò in protesta. Fu solo nel 2015 che il fronte democratico, guidato da Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991, salì al potere. I Paesi che si aspettavano un cambiamento epocale rimasero profondamente delusi. Non solo la leader birmana non riuscì a calmare i conflitti etnici della zona, ma ella arrivò anche a negare la persecuzione dei Rohingya da parte dell’Esercito di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia. Nonostante ciò, la sua popolarità tra i connazionali rimase altissima, permettendogli di vincere con ampio margine le elezioni tenutesi nel 2020 e assicurarsi circa il 60% dei seggi parlamentari. Questo risultato, sebbene approvato da tutte le maggiori istituzioni internazionali, eccetto Human Rights Watch, fu presto contestato da opposizione e Tatmadaw, che accusarono la LND di frode elettorale e chiesero un’indagine approfondita. Scagionato dalla Commissione Elettorale, il partito decise di ignorare le richieste degli avversari. In risposta, i militari diedero inizio al golpe descritto prima.
Nonostante l’appello all’articolo 417, la presa di potere delle Forze Armate è un colpo di Stato in piena regola: infatti, l’articolo citato richiede una minaccia alla solidarietà nazionale o alla sovranità della Repubblica attraverso atti d’insurrezione, violenza o coercizione illegale, non presenti nel caso in questione. Le ipotesi avanzate dagli analisti sul perché dell’azione dei militari sono molte, concentrate in particolare sulla figura di Min Aung Hlaing. Gli analisti interpellati dalla BBC ritengono infatti che sia stata la sua sete di potere a condurre agli eventi dell’1 febbraio. Difficilmente però egli avrebbe trovato l’appoggio degli altri gerarchi dell’esercito, che già ambivano alla sua posizione e che ritenevano la democrazia parziale un compromesso a loro favorevole. Più probabile è che i militari abbiano voluto riprendere il potere per riaffermare il controllo sul Paese e riorganizzarsi internamente, in vista del prossimo pensionamento del loro leader. Questo eviterebbe loro di entrare in crisi dopo la sua fuoriuscita e non lascerebbe quindi spiragli al movimento democratico per escluderli dalla politica nazionale, come successo con altre juntas prima di loro.
Il nuovo governo non ha però potuto realizzare il proprio piano nel modo desiderato. Infatti la promessa di elezioni libere in un anno non è riuscita a placare la folla, scesa subito in piazza per chiedere di restaurare la democrazia. Questo ha costretto i vertici militari a ricorrere ai metodi di repressione tipici del vecchio regime, tra cui la censura del dibattito pubblico, sotto la forma di blocco della rete telefonica, di Internet e dei social network. Sebbene abbia un fatto un passo indietro sull’uso dei primi due strumenti, è innegabile che il ruolo oggi assunto dalle piattaforme web è diventato una minaccia per chi volesse instaurare una dittatura. Esso non si limita a ostacolare il libero confronto tra idee, ma anche a impedire qualsiasi tipo di contatto sociale tra i manifestanti. Per una società alla ricerca dell’ordine come quella di un regime autoritario, l’organizzazione di proteste ma anche di semplici riunioni al di fuori della loro sfera di influenza è una minaccia fatale: è un’affermazione di indipendenza e di spontaneità contro un ordine totalitario, che può essere tale solo se niente sfugge al suo controllo. Valori alternativi ai suoi non possono essere espressi, azioni contrarie alle sue compiute, senza essere ostacolate ed eventualmente represse.
Come può quindi una nazione che aspira ai valori democratici giungere a un compromesso efficace con chi vuole ottenere ciò? Questa forte contraddizione rende la democrazia parziale un esperimento fallito in partenza, o per il lato autoritario o per il lato democratico. Non è possibile un equilibrio tra queste tendenze: una dovrà prevalere. Purtroppo per il Myanmar, la seconda è stata quella che ha dovuto soccombere. Ciò è particolarmente evidente dalla gestione della crisi nello Stato di Rahkine: Suu Kyi non è riuscita nemmeno a condannare le violenze contro i musulmani Rohingya, tanto il desiderio di una democrazia, seppur limitata, la costringeva a cedere alle richieste del Tatmadaw. La vittoria della LND nel 2015 si è rivelata una vittoria di Pirro: i democratici non sono diventati altro che lo strumento di legittimazione dell’operato delle Forze Armate, che in cambio concedevano loro un minimo di autonomia e la speranza in un futuro più florido. Per quanto i loro sforzi per un futuro migliore per il Myanmar siano ammirevoli, il mezzo scelto si è rivelato tutt’altro che adatto a realizzarlo.
Viene dunque naturale chiedersi se le organizzazioni internazionali possano fare qualcosa in merito. Purtroppo anche i più ottimisti dovranno ammettere che la libertà d’azione degli enti esterni sia ben poca. Basti pensare che l’ONU ha dovuto smorzare i toni della sua condanna su richiesta di Russia e Cina. Queste due nazioni infatti chiedevano alle Nazioni Unite di non interferire, giudicando gli avvenimenti come affari interni del Myanmar, la cui sovranità non andava violata. Se anche il massimo organo politico mondiale è limitato nel suo operato, anche quelli più piccoli possono ben poco per impedire violazioni dei diritti umani.
D’altra parte, il sentimento d’impotenza nei confronti di eventi del genere non appartiene solo agli organi politici, ma anche ai singoli cittadini. Chiunque sia venuto in contatto con individui cresciuti sotto la dittatura può ascoltare in prima persona le ferite che i regimi lasciano, siano esse fisiche o psicologiche. Se da una parte è vero che concretamente la nostra azione può avere ben poco effetto sulle prospettive politiche di un Paese semisconosciuto del sud-est asiatico, dall’altra la battaglia per la libertà non è combattuta solo in un specifico punto geografico e storico, ma ogni singolo giorno della nostra esistenza. In quanto cittadini, il nostro contributo a libertà e democrazia consiste nell’esercizio quotidiano della nostra capacità di pensare ed esprimerci sui temi che riguardano l’intera cittadinanza e nel nostro impegno nel coinvolgere tutti in questa attività. La libertà individuale, come anche la democrazia, è una conquista di tutti i cittadini, e da tutti va difesa.
Mathias Caccia
Fonti:
https://www.economist.com/asia/2018/03/08/press-freedom-is-waning-in-myanmar
https://www.reuters.com/article/myanmar-politics-int-idUSKBN2A11W6
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