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Di Matteo – Bonafede: il cortocircuito della giustizia

Aggiornamento: 21 mar 2023

Di Matteo: “I capimafia dicevano: ‘se nominano Di Matteo è la fine’”. Il Ministro: “Illazioni campate in aria”.

Cosa accade quando un magistrato accusa il Guardasigilli.

È il 3 maggio 2020 quando il p.m. Di Matteo interviene telefonicamente nella nota trasmissione televisiva Non è l’arena, condotta da Massimo Giletti.

Il magistrato dichiara di avere ricevuto, nel giugno 2018, la proposta di ricoprire l’importante incarico di capo del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) o, alternativamente, di direttore generale degli affari penali. Il giorno seguente, nonostante l’intenzione del p.m. di accettare il primo e più prestigioso incarico, il Ministro della Giustizia Bonafede ritirò tale offerta, mantenendo invece ferma la seconda.

Qui arriva però la grave insinuazione: Di Matteo, nota figura dell’antimafia, suggerisce che questo improvviso cambiamento sia stato determinato dalle reazioni di importanti esponenti della criminalità organizzata, per giunta sicuramente note al Ministro, in quanto trasmesse proprio in quei giorni dal GOM (reparto mobile della Polizia penitenziaria) alla Procura nazionale antimafia e alla direzione del DAP.

Immediata la risposta del Guardasigilli, che nel corso della stessa puntata sottolinea il costante impegno nella lotta alla mafia e qualifica l’accaduto come un’errata, per quanto comprensibile, percezione del magistrato.

Questo tentativo di chiarificazione non è valso tuttavia a prevenire le polemiche, e il dibattito è presto passato dal piano giuridico a quello politico.

Immediatamente dopo la fine della trasmissione, Matteo Salvini ha parlato di “giustificazioni vaghe e insufficienti”, mentre Giorgia Meloni ha rilevato “ombre sul comportamento del Guardasigilli”, accusando il M5S di combattere lo stesso p.m. Di Matteo col quale avevano proclamato di voler collaborare.

Dal canto suo, il Ministro Bonafede – appoggiato da Vito Crimi, capo politico del Movimento – ha in seguito chiarito sui social la sua versione dei fatti: al termine del primo incontro con Di Matteo, avvenuto il 19 giugno 2018, era convinto di avere raggiunto un accordo per l’incarico di direttore generale degli affari penali, benché il magistrato fosse inizialmente orientato verso il DAP. Soltanto il giorno dopo, nel corso di un secondo incontro, Bonafede avrebbe compreso la ferma volontà del p.m. di accettare solo il primo incarico. Nelle ore intercorse tra i due incontri, tuttavia, il Ministro aveva già assegnato il ruolo di capo del DAP al dott. Basentini.

Anche questa giustificazione non ha però persuaso le opposizioni, che hanno portato la questione in Parlamento attraverso le interrogazioni parlamentari del 6 e 7 maggio.

In questa sede, il Guardasigilli – dopo avere rivendicato la discrezionalità della decisione – ha ribadito l’assenza di qualsivoglia interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo del DAP, evidenziando come le reazioni e le esternazioni di detenuti mafiosi fossero note già alcuni giorni prima del contatto con Di Matteo. Inoltre, ha sottolineato che la sua preferenza verso il secondo incarico era dettata da due elementi: anzitutto, si trattava di un ruolo apicale nella lotta alla mafia, già appartenuto a Giovanni Falcone; secondariamente, avrebbe consentito a Di Matteo di lavorare in via Arenula, sede di Palazzo Piacentini, a stretto contatto con il Ministero, dando così un “messaggio chiaro e inequivocabile a tutte le mafie”.

Questo scenario si lega naturalmente alla controversia relativa alla scarcerazione di alcuni boss mafiosi, avvenuta in ragione dell’emergenza sanitaria in corso. La somma di questi fatti ha spinto parte dell’opinione pubblica a scagliarsi contro l’esecutivo, muovendo pesanti accuse di indulgenza verso la malavita organizzata. Peraltro, è doveroso segnalare che proprio a seguito delle critiche relative alle “scarcerazioni facili”, in data 30 aprile il Dott. Basentini – che era stato nominato capo del DAP al posto di Di Matteo – ha rassegnato le proprie dimissioni.

Proprio per confermare l’impegno nel contrasto alle associazioni criminose, in data odierna (10 maggio 2020) il Governo, nella figura di Bonafede, ha annunciato il via libera al ‘Decreto Boss’, che “consente ai giudici di rivalutare, alla luce del mutato quadro sanitario, le concessioni da loro disposte nei confronti dei detenuti a causa della diffusione del Covid-19”. Una mossa tanto giuridica quanto politica, subito definita insufficiente dalle forze di opposizione, che ricordano i 500 condannati già usciti e chiedono la revoca immediata di ogni sconto e permesso.

I fatti esposti hanno acceso all’interno di Politics Hub un dibattito, ben rappresentativo dei diversi punti di vista dai quali anche l’opinione pubblica osserva e giudica la questione. Tra questi, spiccano senz’altro i due antipodi.

Da un lato, vi è chi ritiene inaccettabile il comportamento di un p.m. che, in concomitanza della complessa gestione dell’epidemia in corso, decide di rilasciare simili dichiarazioni contro un Ministro, per giunta in sede televisiva, ove è facile creare scandali di portata smisurata.

Dall’altro, non manca chi attribuisce maggior peso al contenuto piuttosto che alla forma della dichiarazione, e richiede trasparenza da parte del Governo nella delineazione dei motivi che hanno condotto alla scelta del capo del DAP e alla liberazione di condannati per reati mafiosi.

Del resto, come insegnava Seneca, saepius opinione quam re laboramus: più spesso siamo guidati dall’opinione che abbiamo di una cosa, che non dalla realtà stessa della cosa.

Scopo di questo articolo, nella piena filosofia di Politics Hub, non è tanto favorire lo schieramento dall’una o dall’altra parte, quanto più fornire strumenti che consentano una valutazione consapevole e ragionata della questione.

Riccardo Canossa




Intervento di Di Matteo a Non è l’arena:

Risposta completa di Bonafede a Non è l’arena:

Trascrizione interrogazioni parlamentari:



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