La volta scorsa ci siamo lasciati con questa domanda: ma se uno studente contrae il virus mentre raggiunge la scuola, questo viene considerato tra i contagiati all’interno della stessa? Proviamo a dare una risposta.
Spesso ci si lancia nella lettura di grafici e percentuali, arrivando persino a trovare relazioni particolari e interessanti, ma si perde di vista una fase fondamentale dell’analisi statistica: la raccolta dei dati. Se essi vengono raccolti con un metodo impreciso, o su un campione distorto, anche la loro elaborazione, per quanto accurata, sarà lo stesso errata (generalmente questo concetto viene espresso con la locuzione “Garbage in, garbage out”). Capire dunque a cosa corrispondono i dati grezzi quando si parla di “contagi nelle scuole” ci potrebbe aiutare a comprendere se le misure prese siano quelle più adatte o meno. In realtà, sulla base di quanto si può comprendere dall’unica nota pubblicata sul sito del Ministero dell’Istruzione, i numeri presenti riguardano solamente gli studenti e il personale scolastico contagiato, senza specifiche particolari. Non è dunque noto se essi sono stati contagiati all’interno delle aule oppure in altri contesti, e di conseguenza, non è possibile determinare se il reale rischio di contagio presente tra i banchi di scuola sia molto elevato o del tutto irrisorio, e se la chiusura di queste sia realmente legittimabile per scongiurare un aggravamento della pressione sanitaria già molto elevata.
Non dobbiamo poi dimenticarci che, prima della chiusura totale, esistono anche numerose misure intermedie che le scuole hanno attuato per cercare di contenere i contagi all’interno delle classi: distanziamento dei banchi, obbligo di mascherina durante gli spostamenti, continua sanificazione di mani e ambienti utilizzati, potenziamento delle linee di trasporto esclusivamente scolastiche, controllo della temperatura a casa o a scuola, quarantena preventiva per le classi in cui è presente un positivo, scaglionamento degli ingressi e integrazione della didattica a distanza con quella in presenza. O almeno, queste dovevano essere le misure in linea teorica: non sempre è stato possibile mantenere il distanziamento tra i banchi, non sempre è stato possibile scaglionare gli ingressi, non sempre è stato possibile contenere i contagi, e questo ha causato lo scoppio di numerosi focolai, che hanno portato prima alla chiusura di oltre 1.500 classi, poi di oltre 200 scuole, e infine alla situazione attuale, lasciando a casa oltre 4 milioni di studenti.
Chiudere le scuole, però, non significa semplicemente lasciare a casa degli studenti, che spesso e volentieri di queste chiusure sono pure abbastanza contenti. Chiudere le scuole significa limitare il pieno rispetto del fondamentale diritto all’istruzione, che il nostro Paese si è impegnato a garantire e rispettare all’interno della sua Costituzione, all’articolo 34. Le perplessità sulla didattica a distanza sono giunte da diversi fronti: Alberto Villani e Luca Richeldi, membri del Comitato Tecnico Scientifico hanno affermato “In classe al più presto o gli alunni avranno danni psicofisici”, ipotesi confermata da uno studio dall’Australian Global University; l’Associazione Nazionale dei Presidi ha più volte ribadito che “si rischia un allargamento del divario formativo difficilmente recuperabile”; Coldiretti ha invece posto l’attenzione sul fatto che quasi uno studente su 3 non possieda una connessione internet, e che per tutti questi ragazzi è impossibile seguire la didattica a distanza. È risaputo che le performance del sistema scolastico italiano siano inferiori rispetto alla media OCSE e che il divario Nord-Sud sia già molto evidente, come ha sottolineato l’ultimo “Rapporto Pisa 2018” dello stesso OCSE, e pertanto ci chiediamo se ci si possa davvero permettere di inasprire ancor più questa situazione così gravosa per il futuro del nostro Paese. Una conseguenza secondaria (ma non per importanza) della chiusura delle scuole, riguarda la gestione dei ragazzi da parte dei genitori: per quanto uno studente di prima superiore di seconda media possa essere responsabile, egli non può essere certo lasciato a casa da solo, e questo obbliga dunque la presenza di almeno un familiare insieme al ragazzo. E dato che, per via della pandemia o per altri motivi, i genitori non possono sfruttare né la figura dei nonni, né quella dei babysitter, sono costretti a decidere chi dei due dovrà restare a casa, ed è evidente come questo possa portare ad ulteriori difficoltà di carattere economico.
In conclusione, l’arrivo della seconda ondata è stato predetto sin dagli inizi dell’estate, e ci è stato dato tutto il tempo per organizzare al meglio la ripartenza delle scuole, templi per eccellenza della formazione intellettuale e sociale di quei soggetti che in futuro costituiranno la colonna portante della società italiana; alcune misure sono state prese, ma nonostante ciò i contagi tra gli studenti sono aumentati drasticamente, e questo ha portato alla tanto compianta decisione di chiudere gran parte delle scuole italiane. Non si sa se i ragazzi si siano contagiati tra i banchi, davanti ai cancelli delle loro scuole o sui mezzi di trasporto che usano quotidianamente (gli stessi mezzi che utilizzano tutti i lavoratori che, anche con la chiusura delle scuole, continuano a recarsi nei loro uffici rimasti aperti), e non possiamo fare altro che sperare che esse riaprano al più presto in totale sicurezza e magari con misure più efficaci, come un tracciamento più attento dei casi o un utilizzo migliore degli spazi che potrebbero essere messi a disposizione delle scuole per garantire distanziamento ed aerazione degli spazi. In questo mare di incertezze, rimane un solo faro ad illuminare la via da seguire nei prossimi mesi: l’istruzione è e deve essere considerata fondamentale se vogliamo realmente costruire un futuro per il nostro Paese, e dobbiamo impegnarci al massimo affinché le scuole siano le primissime realtà a ripartire e a ridare ad ogni singolo studente la possibilità di formarsi e, soprattutto, di crescere.
Filippo Latino
Sitografia
Comments