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Migrazione e Globalizzazione: Riflettiamo! parte I

Aggiornamento: 4 apr 2023

«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti»

(Dichiarazione Universale dei diritti umani, Parigi 1948)


Un essai riguardo al fenomeno migratorio, una delle attività più antiche della civiltà umana. La domanda dalla quale scaturisce questa riflessione è: quale rete di significati porta con sé la migrazione e l’idea di confine nella società liquida, globalizzata e post-moderna di oggi?


L’età contemporanea ha favorito un processo inarrestabile di espansione e integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo; ciò è dovuto all’avvento del capitalismo e degli strumenti di comunicazione di massa, che hanno dato vita alla società che noi tutti oggi conosciamo. La globalizzazione è per antonomasia il progressivo abbattimento delle barriere spaziali fra le nazioni, indotto dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; perciò, è per definizione teatro di continui spostamenti di persone, merci, simboli e significati. Dunque, risulta impossibile immaginare la diffusione della modernità nel mondo senza lo spostamento di un gran numero di persone.


Questo panorama storico-culturale, secondo uno dei sociologi più influenti del nostro secolo Zygmunt Bauman, produce tre principali complicazioni correlate l’una all’altra: una crescita demografica esponenziale, un’ossessiva ricerca di un ordine e il costante progresso economico. Con il primo aspetto si vuole intendere che nei diversi luoghi del pianeta ove si verifica una generazione di individui, non c’è abbastanza posto per ospitarli tutti, ovvero il rapporto tra persone e risorse necessarie ad esse è fortemente squilibrato; questo è, secondo il sociologo, uno dei motivi della migrazione: la ricerca di un luogo dove poter sopravvivere oppure, nel migliore dei casi, vivere. Nonostante che la questione sulla naturale propensione alla socialità umana sia un argomento dibattuto, è indubbio che, da quando ne abbiamo le fonti, i fenomeni associativi umani hanno da sempre cercato di darsi un ordine interno, la storia infatti ci dà parecchi esempi in tal senso. Proprio questa innata tendenza all’ordine, cioè cercare un senso alla suddivisione del lavoro o del potere individuale, è una problematicità sottolineata da Bauman; infatti, nel momento in cui si ha bisogno di designare uno schema collettivo funzionale al benessere personale e sociale è improbabile che nessuno risulti al di fuori dell’ordine prestabilito e quindi il rischio di emarginazione sociale risulta essere molto alto. Il progresso economico, inoltre, vede la produzione delle merci con una prospettiva lungimirante a livello di tempo, ma con l’obiettivo di ridurre le spese di produzione e di impiegare minor forza lavoro possibile; in tal modo viene riportato in auge il concetto di troppo, poiché con l’evolversi della produzione, un nuovo soggetto, essendosi ridotta la possibilità di esprimere il proprio capitale umano, dovrà procurarsi il proprio sostentamento altrove. Già Karl Marx ne “Il Capitale” intuì che il fine del capitalismo fosse quello di produrre il maggior plusvalore possibile, riducendo però al minimo il capitale variabile.


Questa breve esposizione sociologica è funzionale per inquadrare meglio il punto di questa riflessione; infatti, risulta evidente come la globalizzazione e il sistema capitalistico pongano in essere le condizioni per una interconnessione mondiale sempre più fitta che, inevitabilmente, porta a interrogarsi sulla possibile attualità dei significati di limite e confine. Il concetto di limite nella realtà odierna è sottoposto a un assiduo interrogatorio da parte di moltissimi intellettuali, i quali lo criticano circa la sua improbabile efficacia a livello empirico, spaziale e logico. Tra questi è utile citare ancora Bauman, che addirittura definisce la società odierna come liquida, quindi senza una forma precisa o un limite tracciabile; vi è anche Carlo Bordoni, sociologo italiano, che descrive la realtà odierna come un interregno, ovvero un deserto di valori dove gli individui vagano nel nulla indistinto spaventati e soli, poiché privi di strutture di riferimento. Arjun Appadurai, antropologo statunitense, ha introdotto un interessantissimo concetto, quello di panorama, inteso come l’insieme delle differenti declinazioni socioculturali di un medesimo fenomeno globale, che viene appunto interpretato localmente dagli individui a seconda delle loro prospettive. Questo "panorama" porta a concepire l’idea di un’antropologia multisituata, in quanto consente di affermare che le culture locali hanno ormai compiuto il loro ultimo tramonto, lasciando così sorgere la cultura globale, nella quale un simbolo può essere ovunque e da nessuna parte.


... to be continued ...


Pietro Carù


Caro lettore, rimani sintonizzato per scoprire la seconda parte di questo articolo settimana prossima!

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