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La condanna di Navalny e la democrazia in Russia

Aggiornamento: 4 apr 2023

Come ormai noto, il principale oppositore politico di Vladimir Putin, Alexei Navalny, leader del partito Russia del Futuro, è stato condannato dal Tribunale di Mosca alla pena della reclusione per 3 anni e 6 mesi. Da questi devono essere scomputati i 10 mesi già trascorsi agli arresti domiciliari, per cui Navalny dovrebbe trascorrere in carcere i prossimi 2 anni e 8 mesi.

A sorprendere è sicuramente l’oggetto della sentenza, relativa a un’indagine per appropriazione indebita risalente al 2014. Su questa e altre indagini si è espressa nel 2018 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che le ha giudicate “arbitrarie e manifestamente irragionevoli”, in quanto motivate da ragioni politiche, e dunque lesive dell’art. 5 CEDU, sulla libertà e sicurezza personale, e dell’art. 11, sulla libertà di associazione e di riunione.


La procura russa ha accusato Navalny di essersi volontariamente sottratto all’azione giudiziaria valicando i confini nazionali, e a nulla sono valse le rimostranze dell’imputato, che ha ricordato: “Ero in coma, poi in terapia intensiva. Vi ho mandato le cartelle mediche. Avevate il mio domicilio e i miei numeri di telefono. Che cos'altro dovevo fare?”. Già, perché ad agosto 2020 Navalny era stato ricoverato in Germania, dopo essere stato misteriosamente avvelenato all’aeroporto di Omsk: per questo fatto, la vittima non ha mai cessato di incolpare proprio il Presidente della Federazione russa Putin.

Insomma, in molti hanno intravisto nel processo a carico di Navalny un pretesto per metterlo fuori gioco, e questa tesi sarebbe avvalorata dalla sistematica repressione (5600 arresti solo domenica scorsa) che il governo russo opera nei confronti dei manifestanti che sostengono politicamente il leader di Russia del Futuro.


Immediata la reazione della comunità internazionale, ed è proprio su questo punto che sembra doveroso riflettere.

Messaggi di preoccupazione, condanna e richiesta di rilascio sono giunti da tutti i maggiori esponenti politici nazionali – come Angela Merkel, Emmanuel Macron e Luigi di Maio – ed europei, tra cui Ursula Von der Leyen, David Sassoli e Charles Michel. L’Alto rappresentante UE Josep Borrell ha recentemente affermato che i rapporti UE – Russia sono giunti “al punto più basso a causa dell’avvelenamento e della successiva incarcerazione di Navalny”, e che sono sul tavolo sanzioni contro Mosca.


Eppure, la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha dichiarato che "non è più solo interferenza negli affari interni di uno Stato sovrano, ma autodenuncia del tentativo illegale dell'Occidente di contenere la Russia”.

Questa è un’argomentazione forte, fortissima, che rischia di rendere del tutto inefficaci le prese di posizione “verbali” degli esponenti politici occidentali. La Russia è uno Stato sovrano, riconosciuto dalla totalità dei Paesi del globo, formalmente dotato di un governo democraticamente eletto, e non aderente all’Unione Europea. Come si può pensare che gli inviti, le indicazioni, le raccomandazioni e le richieste provenienti da Paesi esteri siano dotati di qualsivoglia forza vincolante nei confronti della Russia?


In effetti, il diritto internazionale è prevalentemente un diritto di moral suasion, in cui si confida che gli Stati “contraenti” si conformino spontaneamente agli obblighi assunti. La Russia, come accennato sopra, è Paese firmatario della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), e già per questo dovrebbe osservarne il contenuto. Se è certamente vero che esistono dei meccanismi di enforcement, tra i quali, per l’appunto, le sanzioni, è tuttavia lecito chiedersi: cosa accade se un Paese aderente sceglie deliberatamente di violare gli accordi con gli altri Stati sovrani, e, magari, di non pagare nemmeno le sanzioni, non riconoscendo più l’autorità delle istituzioni internazionali?

Se conveniamo che la guerra non è un buon modo per risolvere le tensioni interstatali, si potrebbe semplicisticamente rispondere che sarebbe sufficiente espellere lo Stato dalla Convenzione. Tuttavia, questa non è una contromisura desiderabile, dal momento che si risolverebbe esclusivamente in un danno per i cittadini di quella nazione, che non sarebbero più nemmeno potenzialmente tutelati dagli accordi internazionali.


Insomma, è davvero un problema di difficilissima soluzione, un inestricabile nodo gordiano che, a noi pare, può essere concretamente risolto soltanto con una presa di coscienza interna, attraverso le manifestazioni di tutti quei cittadini che riconoscono di subire una lesione della libertà di parola e di opinione politica, e che per questo si organizzano per rivendicare il riconoscimento dei propri diritti.

Crediamo anche che le repressioni violente da parte dei corpi di polizia e tutti i tentativi di isolamento delle comunicazioni (si pensi, per esempio, ai social network), siano sintomo del timore del governo di vedere vacillare il proprio potere costituito.

Ciò che ci unisce, senza dubbio, è la convinzione che un Paese in cui l’opposizione politica è perseguitata e repressa, non può essere definito democratico.



Riccardo Canossa




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