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Cade il Quarto Potere: parte I

Aggiornamento: 1 mag 2021

Gli Stati Uniti hanno cercato di erigersi a modelli di libertà e democrazia nel mondo per gran parte della loro storia, usando alle volte anche mezzi discutibili. Uno dei pilastri che ha sempre sorretto una costruzione così ambiziosa è stata la libera stampa, il Quarto Potere. Poche istituzioni giornalistiche possono vantare la illustre storia di quella americana, poche possono dirsi libere dalla loro influenza, pochissime però possono dire di aver affrontato crisi così gravi mentre vigeva un regime democratico. Se infatti le vette del news media oltreoceano sono conosciute ai più e celebrate in opere come All the President’s Men, The Post e Spotlight, le sue difficoltà sono meno note e spesso dimenticate. In questo articolo presenteremo una breve panoramica sul giornalismo statunitense del Novecento e dei primi anni Duemila, in vista di un futuro articolo che ne analizzerà la profonda crisi attuale.


Quella odierna, infatti, non è certamente la prima crisi che il news media americano ha dovuto affrontare. Già nelle prime decadi del Novecento il fenomeno dello yellow journalism era diventata una minaccia critica all’integrità del news media. Molti editori, tra cui Joseph Pulitzer and William Randolph Hearst, avevano asservito i propri giornali ai personali scopi politici e non avevano esitato a violare qualsiasi norma etica per avere un vantaggio anche solo marginale sull’avversario. Vi erano diversi casi di notizie false, o supportate da dubbie fonti, o rumours inaffidabili. Gli articoli puntavano solamente a destare scandalo nel lettore, drammatizzando storie come crimini o pettegolezzi oltre ogni ragionevole limite. Questo fenomeno però si placò dopo pochi decenni: i comportamenti discutibili, come era immaginabile, avevano portato le maggiori testate ad andare oltre l’umanamente sopportabile, provocando nei lettori un disgusto irrimediabile. Pulitzer, pur perseverando nelle sue bieche strategie editoriali, provò rimorsi in fin di vita, che portarono a promuovere l’istituzione di scuole di giornalismo come la Missouri School of Journalism e la Columbia Graduate University School of Journalism e a lasciare in eredità fondi poi convogliati nel celeberrimo premio Pulitzer. Hearst, d’altro canto, fu travolto da uno scandalo che nemmeno un personaggio del suo prestigio poteva scampare: dopo che due dei suoi editorialisti scrissero degli articoli auspicando la morte dell’allora presidente William McKinley, questi venne assassinato, con grande shock del pubblico americano.


Dopo la Seconda Guerra Mondiale, tra gli anni ’50 e ’60, la scena giornalistica si era stabilizzata: la situazione economica e tecnologica di allora aveva portato alla creazione sia nella stampa sia nella televisione di poche testate nazionali e di piccole testate regionali e cittadine, neutre sul piano politico, fedeli agli standard etici classici di onestà, oggettività, imparzialità, diligenza e responsabilità personale. In questo microcosmo mediatico la professionalità era ai massimi livelli, essendo diventati i giornalisti un'elite altamente specializzata, e la polarizzazione politica ai minimi.


A trasformare completamente il news media ci penserà Nixon, il 37esimo presidente degli Stati Uniti, dando vita all’apice del giornalismo investigativo e ponendo le basi per il suo declino. Nonostante fosse stato appoggiato alle elezioni dall’80% dei giornali nel 1968 e dal 92% nel 1972, egli promulgò sempre una politica aggressiva nei confronti della stampa. Questo atteggiamento era probabilmente dovuto alla sua illusione di aver perso l’elezione per il governatorato di California nel 1962 per colpa dell’attività dei reporter. Fu il primo a definire la stampa esclusivamente “the media”, termine che suggeriva manipolazione, e non “the press”, cui il pubblico legava forti valori etici. Inoltre, sia lui che il vicepresidente Spiro Agnew condannarono più volte il news media, dichiarando (a torto) che questi scrivevano in funzione dei loro valori, e non dei fatti. Che questo attacco non avesse basi concrete fu dimostrato dalle rivelazioni successive. Ad esempio, nel 1972, consigliava a Kissinger, suo segretario di Stato, di riscrivere ossessivamente sulla lavagna “la stampa è il nemico, la stampa è il nemico…”, testimoniando un odio profondo per l’istituzione. Ironicamente, uno dei presidenti che più disdegnò la stampa finì per essere colui il quale la proiettò al suo momento più alto: il giornalismo investigativo di Bob Woodward e Carl Bernstein riguardanti lo scandalo Watergate. Nel mito, i due divennero i David che con le loro sole forze avevano sconfitto Golia; nella realtà, il loro ruolo, seppur decisivo, fu minore: la maggior parte degli accademici ora concorda che il loro merito fu tenere vivo l’interesse nelle indagini quando gli altri giornali avevano ormai mollato la presa. Il cambio per l’istituzione della stampa fu epocale. La coppia del The Washington Post raggiunse livelli di fama quasi semidivini, consacrati dal film All the President’s Men. Nell’immaginario popolare la figura del giornalista divenne quasi eroica e incarnò il watchdog tanto caro alla teoria del giornalismo. Il Quarto Potere era diventato una solida realtà e aveva scosso le fondamenta stesse della politica di Washington. In quest’epoca venne meno il tono reverenziale tradizionalmente usato nei confronti delle istituzioni: giornalisti e politici si scontravano ad armi pari e nel denunciarsi a vicenda non si scambiavano certo cortesie. Questo insieme di fattori portò a quella che molti ritengono l’età dell’oro del giornalismo americano, fidato difensore del popolo contro i sorprusi. Ma, in tutta questa gloria, si sottovalutò un particolare importante: la relazione coi politici. Questi si sentivano minacciati dalla stampa, ai loro occhi sempre in cerca di scandali e scalpi da collezionare. Evitare un tale livello di responsabilità nei confronti del pubblico e riservarsi un maggiore potere politico divenne d’ora in poi uno dei desideri proibiti del politico americano. Da alleato il news media era diventata un severo guardiano, e la cosa non piaceva più di tanto.

Di per sé ciò non si sarebbe rivelato fatale, e di fatto l’istituzione giornalistica continuò a godere di una certa popolarità fino ai primi anni ’90, cui però seguì un lento declino. Nel frattempo, infatti, la situazione era cambiata notevolmente: l’avanzare della tecnologia aveva permesso a sempre più network di trasmettere all’intera nazione, allargando la comunità giornalistica e diminuendo la qualità media delle notizie fornite; la ricerca onesta della verità si era trasformata in alcuni casi in un’assidua ricerca dello scandalo, mal tollerata dagli americani (l’esempio più lampante è la crescita della popolarità di Clinton durante il suo impeachment) e la politica americana aveva iniziato il processo di polarizzazione, ancora in corso oggi. Il microcosmo tanto idealizzato dal grande pubblico si era espanso, lasciando spazio a un ben più confusionario e complesso universo.

Ancora una volta, ciò non sarebbe stato sufficiente a stravolgere il mondo del giornalismo, ma il secondo millennio aveva ancora un’ultima carta da scoprire sul tavolo: Internet. Tra i vari sviluppi di questa rivoluzionaria tecnologia ci fu la cosiddetta blogosphere, strumento che permetteva a tutti di accedere a uno strumento di diffusione potentissimo. L’avvento dei blog e dei social media, in particolar modo Twitter, finì per minare la base stessa del giornalismo praticato fino ad allora. La trasformazione di un fatto in notizia doveva per forza passare dalla mediazione del giornalista, che ne verificava l’affidabilità, la inseriva in un contesto, ne determinava la funzione di rappresentazione e contrapposizione rispetto ai valori ampiamente accettati dalla società e dava al tutto una veste formale, seguendo i codici etici, deontologici e stilistici classici. Oggi la mediazione è decaduta quasi completamente: spesso chi sperimenta un fatto è lo stesso che lo trasforma in notizia, promuovendo la propria prospettiva e i propri interessi. Cadono tutti i processi formali, tutti i codici etici e deontologici: chiunque può diventare giornalista con pochi clic. Lo stile oggettivo tipico del Novecento è diventato ormai inadeguato dal punto di vista economico: per sapere i fatti quanto prima si fa sempre più affidamento ai social media, che garantiscono maggiore velocità e maggiore coinvolgimento emotivo, e quindi maggiore intrattenimento.

Oggi si può quindi dire conclusa l’epoca del giornalismo vecchia scuola, con la sua forma concisa e dritta al punto, con la sua oggettività, col suo nobile romanticismo. Dai 2010 in poi la “nuova scuola” ha dovuto formulare un’alternativa sostenibile dal punto di vista economico, prima che sociale ed etico. Essa ha quindi cercato di creare sistemi che spingessero l’utente a consumare quanto più contenuto possibile. Da lì molti dei cambiamenti che abbiamo visto negli ultimi anni. L’oggettività ha lasciato posto all’impatto personale che l’evento ha avuto sul reporter, l’imparzialità ha lasciato spazio alla propaganda politica più o meno subdola, usata per fidelizzare il proprio pubblico; l’onestà ha lasciato spazio nei peggiori casi alla distorsione dei fatti e alle infami fake news. La volontà di fornire al proprio lettore una coerente visione del mondo ha finito per guidare ogni decisione, infrangendo quindi le barriere rimaste. La necessità di catturare l’attenzione ha anche cambiato il lato stilistico del giornalismo Le varie emittenti hanno rivoluzionato il loro formato, sostituendo alle grafiche sobrie, alla parlata calma e distaccata, alle rare breaking news una serie continua di stimoli sensoriali, di sfoghi di rabbia e frustazione e di notizie imperdibili (che poi tanto imperdibili non sono). I politici, sfruttando questo momento di incertezza e crisi del settore, hanno messo a tacere il watchdog che fino ad allora aveva abbaiato troppo: l’intera istituzione viene ormai continuamente accusata di generare notizie a partire dai loro valori, non dai fatti, e il suo lavoro è continuamente screditato, a prescindere dalla sua effettiva validità. Una tattica non nuova ma straordinariamente efficace in ambito moderno: la sua applicazione ha consentito a molti politici, su tutti Trump, di sopravvivere a scandali che normalmente avrebbero distrutto la loro carriera e di ignorare fatti che mettevano in discussione le proprie idee. Proprio la perdita della contrapposizione dei fatti alle idee del lettore come valore del giornalismo è quella che ritengo essere la vittima d’eccellenza della “nuova scuola”: messo in secondo piano, se non totalmente ignorato, il valore etico e sociale del giornalismo, una notizia posta in modo da sfidare la visione del mondo di una persona non ha senso di esistere, perché non contribuisce ad aumentare il consumo dei contenuti. Anche fatti difficilmente interpretabili in altro modo, come l’epidemia di “mass shooting” in America, sono riportati velocemente in un frame familiare, dove vi sono nemici semplici da individuare ed eroi già familiari. L’aria respirata nel giornalismo statunitense, qui brevemente descritta, ha facilitato l’ascesa di Trump e la sua politica mediatica.


Un giornalismo indebolito è una minaccia quanto mai pressante al sistema americano: sebbene il suo ruolo sia spesso sottovalutato, una stampa indipendente e dinamica è la linfa vitale di una robusta democrazia. Questo non è veramente il caso in America e sempre più persone se ne stanno rendendo conto. Se auspicare un ritorno ai bei vecchi tempi è nostalgico e anacronistico, i loro valori etici, deontologici e stilistici devono essere una perenne ispirazione per il news media moderno. Come ha recentemente affermato il famoso giornalista Scott Pelley, “Il successo o il fallimento delle democrazie si basa sulla loro stampa”. Assicuriamoci che la nostra fondazione non marcisca mai, o guai ben peggiori ci attenderanno.


Mathias Caccia


Bibliografia:


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