Ai boliviani i periodi bui non sono certamente sconosciuti: solo negli ultimi settanta anni hanno sperimentato la guerriglia comunista di Ñancahuazu, la dittatura di Banzer Suarez e la tragedia dei desaparecidos. Ma superarono tutte queste difficoltà, e molte altre che si posero sul loro cammino. Oggi sono chiamati ancora una volta a uscire da una situazione di forte divisione e violenza e a curare le ferite aperte dallo scontro sull’elezione di Morales. A Luis Arce, leader del Mas, Movimiento al Socialismo, toccherà questo fatidico compito. Le elezioni presidenziali, svoltesi tra il 18 e il 21 ottobre, lo hanno visto trionfare col 55,10% sul centrista Mesa e il conservatore Camacho: la Bolivia ha così portato a termine la “Revolución de las Pititas”, scattata dopo le controverse elezioni del 2019.
A perturbare il clima di apparente pace fu la decisione del 2017 del Tribunale Costituzionale Plurinazionale che, dichiarando la prevalenza della Convenzione Americana dei Diritti Umani sulla Costituzione, aprì la porta a una ricandidatura di Evo Morales, leader storico di Mas e presidente che era allora nel suo terzo mandato. Questa andava direttamente contro un referendum tenuto l’anno prima dove la popolazione si era detta contraria alla modifica dell’articolo 168, che stabiliva il limite di due mandati per il Presidente. L’opposizione protestò, ma non potè evitare che il Tribunal Supremo Electoral lo accettasse come candidato per le elezioni del 2019.
Arrivata la fatidica data, i sondaggi davano Morales testa a testa con Carlos Mesa, che avrebbe potuto sfidarlo al ballottaggio. A sorpresa di tutti, il presidente in carica riuscì a passare la soglia del 40% e accumulare i 10 punti di vantaggio necessari a evitare il secondo turno. Tuttavia le ombre che già si stagliavano sulle elezioni si erano fatte ancora più minacciose: la trasmissione live dello spoglio dei voti era stata interrotta con i due candidati abbastanza vicini da potersi sfidare in un testa a testa, per poi essere riaperta con Morales vittorioso su Mesa. L’opposizione scese in piazza e chiese le dimissioni del governo, accusandolo di frode elettorale. Nonostante avesse annunciato nuove elezioni, l’’esercito, forse temendo ulteriori disordini, prima consigliò poi impose la rinuncia a Morales, che si allargò poi all’intero esecutivo. Il Paese era ormai nel caos.
A colmare il vuoto di potere intervenne Jeanine Áñez, seconda vicepresidente della Camera dei Senatori e prima in linea di successione. La sua ascesa, seppur con qualche difetto di forma, venne ratificata dal Tribunale Costituzionale Plurinazionale e aiutata indirettamente dall’OEA, l’Organizzazione degli Stati Americani, che dichiarò illegittime le elezioni appena tenutesi perché non allineate con gli standard di sicurezza. Purtroppo i contrasti, anziché calmarsi, si inasprirono: infatti anche i sostenitori di Morales scesero in piazza, denunciando il “golpe”, e iniziarono scontri con l’opposizione. La presidente ad interim, in un clima che preannunciava una guerra civile, prese una delle decisioni più radicali nella storia recente della Bolivia: garantì immunità legale ai poliziotti nelle attività di repressione delle manifestazioni, dando loro pressoché carta bianca. In qualche settimana Mas e opposizione trovarono un compromesso che portasse a nuove elezioni, pagato però a caro prezzo dai manifestanti boliviani. Questi, soprattutto tra i sostenitori di Morales, denunciarono l’eccessiva violenza della polizia, che era arrivata a sparare sulla folla, come poi confermerà l’International Human Rights Clinic di Harvard.
Quasi un anno dopo, lo stesso partito che la Revolución aveva rovesciato si è affermato con numeri persino maggiori rispetto a quelli di Morales. Una delle ragioni di questa vittoria inaspettata sta nella scelta del candidato: Luis Arce è un economista molto stimato in Bolivia e considerato il fautore della crescita economica boliviana dal 2006 al 2019. Pur essendo un personaggio molto legato a Evo Morales, egli è riuscito a distaccarsi a sufficienza per raccogliere anche i voti di chi non lo voleva più al potere. Inoltre è stato uno dei pochi politici boliviani a uscire rafforzato dalla pandemia di Covid-19. Questa infatti ha messo fine alle speranze elettorali di Àñez, che è stata fortemente criticata per la gestione della pandemia. Ma i meriti della sconfitta del centrodestra sono da attribuire principalmente a loro, che non sono stati capaci di attrarre i voti indigeni, su cui Evo aveva fondato il proprio successo politico. Infatti leader come Àñez, Mesa e Camacho si sono occupati di più del loro elettorato, già solido: difficilmente qualcuno che pochi mesi prima era sceso in piazza accusando il Mas di voler creare una dittatura voterà lo stesso partito pochi mesi dopo. Invece l'elettorato del Mas, specialmente quello indigeno, si è sentito alienato non solo hanno “riportato la Bibbia a palazzo” col governo ad interim, ma hanno anche intrapreso una campagna di repressione perseguendo molti dei sostenitori di Evo coinvolti nelle proteste. Il segnale ricevuto dalla popolazione indigena è stato chiaro: si torna a un periodo pre-Evo, dove molti lamentavano l’impossibilità delle minoranze di attivarsi politicamente in modo efficace. Così Arce ha potuto contare su un solido appoggio, che lo ha condotto alla vittoria finale.
La Bolivia si trova quindi davanti a una sfida senza precedenti: dovrà ricostruire una nazione messa in ginocchio dall’instabilità politica dell’ultimo anno e da una tra le peggiori crisi da Covid al mondo. La sfida più grande è quella sul piano economico, in crisi come mai prima nella storia boliviana. Il progetto di Arce ricalca quello elaborato nel 2006: forte spinta al consumo interno e industrializzazione delle risorse naturali, saldamente nelle mani dello Stato.
Rimane quindi una domanda: la soluzione Arce funzionerà di nuovo? Il popolo boliviano ha più volte dimostrato di saper affrontare ogni tipo di difficoltà, ma non sempre i leader sono stati all’altezza. D’altronde poche situazioni politiche sono complesse come quella boliviana. Al popolo non resta che sperare: a cada cerdo le llega su San Martín.
Mathias Caccia
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