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AL DI LA' DELLE SBARRE: UN'UMANITA' ESPLOSIVA

Aggiornamento: 2 apr 2023

In dialogo con don David Maria Riboldi, cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio


Abbiamo tutti sentito parlare delle rivolte scoppiate nelle carceri italiane dal 7 marzo. Le ragioni alla base di queste tensioni sono più o meno note: la paura che il virus varcasse la soglia del carcere, poiché il personale che vi lavorava continuava a entrare e uscire, la sospensione dei colloqui con familiari e avvocati, dei permessi premio e dei progetti di reinserimento con associazioni e cooperative, insieme, spesso, alla mancanza di adeguate spiegazioni ai detenuti sulla situazione e sulle misure preventive messe in atto.

Ma indipendentemente dai disordini avvenuti, che si sono più o meno risolti, almeno momentaneamente, questi episodi devono farci riflettere sulla bontà del sistema penitenziario del nostro Paese.

Per approfondire la situazione, abbiamo intervistato una persona che il carcere lo vive tutti i giorni, in qualità di cappellano: don David Maria Riboldi.

Nella casa circondariale di Busto Arsizio, dove svolge il suo ministero, non solo non ci sono state rivolte, ma i detenuti hanno anche raccolto, con una colletta, quasi 2200 euro per l’acquisto di 56 tablet con cover antisettiche, donate ai reparti a rischio contagio degli ospedali.

Cos’ha portato, in un momento così critico, a questo gesto di estrema solidarietà?

“Innanzitutto bisogna considerare che la rivolta accade direttamente con le persone che in carcere ci lavorano, in primis con il personale di polizia. Dico sempre alle persone in divisa che la vera sicurezza non nasce quando mostrano i muscoli, ma con l’ordinario rispetto per persone che talvolta mai ne hanno ricevuto o dato, fuori. È l’impegno quotidiano dedicato ordinariamente da polizia penitenziaria e detenuti al costruire relazioni di rispetto reciproco, a fare la differenza, e a portare poi anche al rispetto per le norme da parte dei reclusi.

Inoltre, per quanto i disordini siano scoppiati in quasi trenta strutture, una percentuale non così irrisoria sul totale di 230 istituti di pena italiani, è pur vero che la maggior parte dei detenuti non si è sentita rappresentata da queste rivolte”.

Ciò non toglie la portata delle problematiche che questi episodi hanno svelato agli occhi di tutti, e che chiaramente s’insinuavano da tempo nel nostro sistema penitenziario.

“Nonostante i tre miliardi di euro investiti annualmente dal governo italiano per i detenuti, le strutture carcerarie non sono state capaci, evidentemente, di intercettare una coltre di rabbia che stava covando da tempo. Questo è un dato di cui prendere atto, che deve farci dubitare della funzionalità di questa struttura. Come possiamo aiutare delle persone a reinserirsi in un costrutto sociale, se nemmeno siamo in grado di leggere e interpretare quella rabbia, ma solo di vederla esplodere, in modo così istintivo e violento? Cosa può guadagnarci la società se il 70% dei detenuti che esce poi rientra, se le carceri restituiscono al mondo esterno una rabbia simile?”

E’ bene domandarsi, allora, quali cambiamenti andrebbero messi in atto affinché la pena possa essere realmente rieducativa.

“Perché una pena sia riabilitativa è necessaria innanzitutto la volontà che lo sia da parte di chi la deve scontare. Poi devono esserci le condizioni e gli strumenti adeguati. Il sovraffollamento di cui tanto si è parlato è reale: in base alle stime disponibili fino a febbraio 2020, per circa 50.000 posti disponibili sono presenti più di 61.000 detenuti, e questo non implica soltanto mancanza di spazio, ma anche carenza di personale, di mezzi di comunicazione con l’esterno, di momenti per revisionare la propria vita e il proprio reato. A Busto, ad esempio, ci sono 200 poliziotti e tre educatori per 440 reclusi (pre-covid: ad oggi 345 detenuti). Anche il lavoro è uno strumento fondamentale per il reinserimento, ma pochi sono gli istituti di pena in Italia in cui sono previsti percorsi di formazione lavorativa”, e solo il 4% dei reclusi fa un lavoro vero, con formazione, contratto e stipendio.

Un altro problema è quello delle visite. “Come possono le persone uscire migliori di come sono entrate se possono sentire al telefono i loro cari solo dieci minuti a settimana e dunque sono impossibilitate a creare legami stabili? Questa anestesia affettiva può forse rendere migliori le persone? La mancanza di libertà è istruttiva di una libertà più capace di mettersi alla prova nella società?

È una realtà fatta di persone che fanno fatica a guadagnarsi da vivere, quella che don David racconta e che “spesso chi sta fuori non vuole vedere”. Non persone violente ed esplosive, come le rivolte scoppiate, ma per lo più anime fragili, bisognose. Necessitano della possibilità di un dialogo, riconosciuto come momento privilegiato per raccontarsi ed essere accolti da qualcuno che sia totalmente disinteressato, ma hanno bisogno anche di cose concrete, dalla telefonata straordinaria alla famiglia, a una banconota da 10 euro quando non hanno più nulla sul conto, al bagno schiuma per farsi la doccia. Per questo oltre alla Messa, alle confessioni, ai momenti di ascolto, soprattutto in questo periodo in cui non possono entrare altri volontari, don David gira spesso tra le celle per rispondere alle varie necessità.

“Stando con loro mi sento disarmato – racconta - cioè senza munizioni, senza pallottole da sparare. Mi scopro vulnerabile, di fronte a tanta umanità che sgorga in modo così nudo, autentico, violento. Ma questa è una grazia”. Lo ha capito da subito che avrebbe avuto a che fare con tipi tosti, da quando ha deciso di proiettare un film ogni venerdì pomeriggio. “Quando ho fatto vedere La paranza dei bambini, un mondo di mafia, droga, inseguimenti, c’è stato il pienone e grande entusiasmo; per Bohemian Rhapsody, grande perla della filmografia hollywoodiana: 30 iscritti e 15 sopravvissuti, commenti successivi impietosi”.

Lì dentro non ci sono maschere, giri di parole, eufemismi. Tutto emerge nella sua totale crudezza, nel bene e nel male. “Quando, ad esempio, qualcuno decide di portarti nel teatro della sua anima, direttamente sulla scena del crimine, è difficile uscirne. Partecipare di tutte quelle atrocità è pesante, chiama in causa la parte più autentica di te, ma allo stesso tempo è gratificante, perché se uno decide di condividere con te un tale peso è perché ha riconosciuto in te qualcuno a cui poterlo affidare, e che possa, in qualche modo, abbracciarlo”. A volte si ha paura di non essere all’altezza, di fare un passo falso, di dire troppo o troppo poco. A volte non c’è proprio nulla da dire, come quando un uomo, in carcere in quanto imputato di infamante reato, in occasione del quarto compleanno di sua figlia si reca da lui, che è l’unico che può vedere la bambina (anche la moglie è in carcere per cui le figlie sono in affido). Presa carta e penna, inizia a disegnare una farfalla, perché sa che alla sua figliola piacciono le farfalle, poi colora, le scrive una dedica, alla fine lascia il foglio al don, premurandosi che glielo consegni il giorno giusto del compleanno. “Quanti papà farebbero un regalo così ai loro figli? Quanti papà si dimenticano persino del compleanno, dei loro figli? Quanto amore, invece, in quest’uomo, quanto amore! Perché né gli errori commessi né il tempo passato in galera, niente e nessuno può togliergli lo straordinario affetto che prova per sua figlia”.

Uomini veri, dunque, da cui c’è tanto da imparare. “Anche leggere il Vangelo, in carcere, ha una potenza straordinaria. Offre punti di vista inattesi, spunti di riflessione che fuori non si valuterebbero mai.”

“La verità vi farà liberi”, recita un pezzo di Vangelo che don David si trova a commentare, e subito dagli occhi spaesati dei detenuti emerge, ironicamente, il controsenso: ci sono verità che rendono schiavi, altro che liberi! “Le verità più scomode e oscure di noi, in effetti ci schiacciano, a meno che... siano accompagnate dalla misericordia. A meno che le mettiamo in mano a qualcuno che ce le ridia indietro amate, perdonate”, che sia con un’ora di ascolto o con il dono di un sapone per la doccia.

Forse, allora, è questo il compito del carcere, in virtù del quale andrebbe ridisegnato tutto il sistema penitenziario italiano: tirar fuori il bene che c’è in chi vi entra. Una modalità, a Busto, è stata la produzione di crocifissi in legno, realizzati proprio dai reclusi in una falegnameria. “Una parte di queste croci è abbracciata da un cuore a metà. Un cuore a metà perché l’altra metà pulsa fuori, a casa dalla propria famiglia o magari nelle persone e relazioni che si sono ferite con il proprio delitto. Un cuore a metà perché lacerato da tanto dolore, subito sulla propria pelle o causato ad altri. Un cuore a metà perché in cerca di chi ci metta il suo, di cuore”. Chissà se ci sarà mai un sistema penitenziario che renda giustizia a tutto questo.


Noemi Felisi

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