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Sospensione di AstraZeneca: il ruolo del giornalismo italiano

Chi di noi non ha tirato un sospiro di sollievo quando ha scoperto che un proprio nonno o genitore o lui stesso non sarebbe stato vaccinato con AstraZeneca?

Comprensibile. Del resto sin dalla sua approvazione, all’inizio del 2021, questo vaccino è stato accolto con una certa diffidenza, vuoi perché non può essere somministrato agli anziani, vuoi perché ha un’efficacia più bassa di Pfizer e Moderna o perché la fase autorizzativa è stata più tortuosa, sta di fatto che un certo scetticismo si è diffuso da subito, portando a un ritardo nelle consegne e alla rinuncia da parte di molti al proprio appuntamento.

Così, quando il 10 marzo una donna di 60 anni dopo aver ricevuto la sua dose ha avuto una trombosi acuta ed è morta, ed in seguito il Paul Ehrlich Institut tedesco ha segnalato 7 eventi di trombosi cerebrale in prossimità temporale con la vaccinazione AstraZeneca, il panico si è dilagato. Nonostante le rassicurazioni delle autorità mondiali riguardo l’assenza di una correlazione causale tra vaccino e malattia, la paura ha pervaso gli animi, e anche media e istituzioni, che dovrebbero rappresentare il filtro tra mondo scientifico e popolazione, non hanno fatto che nutrire il panico, con titoli di giornale, immagini e articoli allarmanti. In attesa di un pronunciamento ufficiale da parte dell’EMA su un’eventuale correlazione tra AstraZeneca e trombosi, le vaccinazioni in Germania sono state temporaneamente sospese. A ruota, in via precauzionale, altri dodici Paesi europei, tra cui l’Italia, hanno fatto lo stesso. Dopo una settimana tutte le istituzioni scientifiche hanno dimostrato che non si è verificato alcun aumento statistico di incidenza di trombosi nelle persone vaccinate rispetto alla popolazione generale e che non si può ipotizzare alcun nesso causale tra i due eventi, invitando gli Stati a proseguire le somministrazioni.

È difficile definire la responsabilità dei governi riguardo la scelta di sospendere i lotti vaccinali: dall’avvento della pandemia, la politica è diventata innanzitutto biopolitica, assumendosi come priorità la preservazione della vita a qualunque costo. È chiaro che più si ritardano le vaccinazioni, più persone moriranno di Covid e che, in una visione globale, se anche gli effetti collaterali fossero gravi su una percentuale minima della popolazione, converrebbe continuare a somministrarli, perché si ridurrebbe comunque enormemente il numero di morti. D’altra parte sarebbe stato azzardato da parte dei governi lasciare che le vaccinazioni con AstraZeneca proseguissero come se nulla fosse, opponendosi all’opinione pubblica e senza un consiglio univoco dai comitati scientifici.

Meno controverso è invece un giudizio sull’operato del mondo giornalistico: chi ha la responsabilità di fornire gli strumenti adeguati per affrontare il panico razionalmente e divulgare notizie attendibili, si è macchiato dell’atto criminoso di nutrire la paura e la disinformazione.

Fa riflettere il fatto che, anche dopo le rassicurazioni del mondo scientifico, i giornali italiani abbiano continuato a infondere scetticismo riguardo AstraZeneca. Basta dare un occhio a qualche prima pagina di venerdì 19 marzo: l’annuncio della ripresa delle vaccinazioni nel titolo è seguita da fotografie di carattere funereo sia sul Corriere che su La Stampa, mentre la Repubblica propone addirittura una vignetta satirica in cui si ironizza sul fatto di credere nella scienza. Impossibile per il lettore non associare le immagini al testo, il vaccino a turbamento e angoscia.



A gennaio il “testo unico dei doveri del giornalismo” è stato integrato con una serie di articoli in cui si richiama al dovere di verificare la veridicità delle notizie scientifiche e si specifica di non creare ingiustificati allarmi soprattutto nel trattare temi legati alla salute, sottolineando il ruolo del giornalista come mediatore preparato nel garantire l’informazione. Questi provvedimenti, tuttavia, non sono bastati per indurre un’inversione di rotta: d’altronde la paura fa notizia, gli articoli scandalistici fanno scalpore, assecondare un terrore già insito nelle persone è un ottimo strumento per attirare quanti più lettori possibili, e le testate italiane sembrano non cercare altro, di certo anche per la situazione economica in cui molte imperversano.

I social network, d’altra parte, non fanno che incentivare la diffusione di false notizie: in virtù del business dell’attenzione sfruttano il bias di conferma, cioè la predisposizione di ciascuno di noi a cercare rassicurazioni delle proprie convinzioni piuttosto che opinioni contrastanti che le mettano in discussione.

L’effetto di questo tipo di informazione è evidentemente nefasto, soprattutto in un Paese in cui la cultura scientifica lascia così tanto spesso spazio all’ignoranza e all’irrazionalità. Il numero di italiani che ad oggi ha paura di vaccinarsi ne è la prova.

Ma come mai è così radicata questa paura, quando è evidente che il vaccino è l’unica protezione dal virus?

Gli effetti collaterali che possono esserci nei giorni seguenti sono senza dubbio complici, anche se non spiegano perché non si temono tanti altri farmaci con effetti peggiori (vedi pillola anticoncezionale, realmente legata a rischio di eventi trombotici). Le ragioni sono più profonde e svariate. Innanzitutto, mentre ammalarsi di Covid è un fenomeno passivo, sottoporsi alla vaccinazione è una scelta volontaria che implica l’assunzione di un rischio: è una modificazione dello status quo, che spaventa come ogni cambiamento, a maggior ragione se si considera che il vaccino si assume in piena salute e non per una malattia già diagnosticata. Per accettare di poter andare incontro a qualche rischio è importante quindi essere coscienti dell’importanza per sé e per la comunità intera del proprio gesto. E l’ignoranza è indubbiamente nemica di questa consapevolezza: spinge a prendere scelte di pancia, fidandosi di ciò che si sente in giro, più che di dati statistici. E se gli uomini di scienza offrono pareri contrastanti, è naturale lasciarsi guidare dall’opinione comune.

Quale metodo, quindi, contro la disinformazione e la paura?

Finché il mondo del giornalismo non si assumerà la responsabilità che gli spetta, l’unica soluzione è che ciascuno si impegni a capire e contestualizzare i dati, piuttosto che a fidarsi della prima notizia letta. In un mondo in cui con un click si ha accesso a tutto lo scibile umano e quindi il valore del possesso dell’informazione è quasi nullo, a scuola si dovrebbe insegnare a interpretare i dati e discriminare tra le varie fonti, a fare ricerche approfondite piuttosto che a leggere e condividere il primo articolo che capita sottomano. Trasmettere la passione per un’informazione vera è ora più che mai fondamentale. Ne va delle nostre vite.


Noemi Felisi






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